PER
“BOCCA MIA TACCIO” DI Luca succhiarelli
di
Marco Palladini
Intervento registrato
il 29 luglio 2017 nel Chiostro di San Francesco ad Amelia (TR), in occasione
della presentazione del libro Bocca mia taccio; revisionato nel 2025
dall’autore.
***
Oggi sono arrivato un
po' prima qui ad Amelia e mi sono fatto un giro per il centro storico. Mi sono
inerpicato nelle stradine, nei vicoli fin sotto la torre medievale, e mi è
capitato di fare un incontro per certi versi bizzarro, come se avessi incontrato
un personaggio che usciva da un altro spaziotempo. C'era un giovane che mi si è
avvicinato per vendermi una copia di «Lotta comunista». Io non gli ho
raccontato che oltre quarant'anni fa due militanti di «Lotta comunista», a
Milano, volevano accoltellarmi. Però ho guardato questo giovane che negli anni
Settanta sicuramente non era neppure nato, in qualche modo con simpatia, perché
mettersi oggi, in un caldissimo pomeriggio di fine luglio, a girare per Amelia,
dove ci sono ben poche anime in strada, provando a vendere una copia cartacea,
perché ancora stampano su carta, di un giornale che già oltre quarant'anni fa
aveva una plumbea fraseologia veterobordighista, veterocomunista bordighista, e
non so quanti qui ancora si ricordano di Amedeo Bordiga, che peraltro è stato
il primo segretario del Partito Comunista d'Italia nel 1921, ecco, mi è
sembrato questo incontro per certi versi un'allucinazione spaziotemporale. E
ovviamente era in qualche modo già, forse, insensata politicamente oltre
quarant'anni fa «Lotta comunista». Oggi ovviamente essa ha qualcosa a che fare,
come dire, con la metafisica, con la metapolitica. Però, per più versi,
l'apparizione di questo ragazzo mi è sembrato un gesto poetico, forse di poesia
inconsapevole, perché in un certo senso segna uno scarto, uno scarto rispetto
al paesaggio, al panorama socioculturale che abbiamo sotto gli occhi e nel
quale viviamo. E ho pensato per l'appunto a Luca Succhiarelli, del quale credo,
dopo Mario Lunetta, sono stato per certi versi uno scopritore, già diversi anni
fa, quando dirigevo una rivista on-line, «Le Reti di Dedalus», che ogni anno
dava una sorta di premio letterario a delle giovani figure emergenti. Luca, di
cui avevo letto in realtà pochissime composizioni, fu individuato e fu per
l'appunto segnalato e premiato da «Le Reti di Dedalus», molto in anticipo
rispetto a tutti quelli che poi l'hanno potuto e saputo avvistare. Già allora
io avevo individuato un suo precipuo gioco linguistico, che in qualche modo
riprendeva certi stilemi da antica lengua italiana, però filtrati da una
sensibilità tutta contemporanea e che aveva ovviamente ben presente cento anni
di esperienze di avanguardia letteraria e quindi faceva una sorta di sintesi
tra una antica sensibilità linguistica e poi invece un'attenzione critica,
poetocritica tutta intrisa appunto di novecentismo. Mi sembrava molto evidente
che Luca Succhiarelli aveva, anche nella limitatezza della produzione sua di
allora, già le stigmate di un poeta. Uno dirà: «Ma ce ne sono migliaia,
centinaia di migliaia, forse milioni di poeti in questo paese». Io da molto
tempo sostengo che, in realtà, bisogna fare una distinzione. Ci sono i poeti e
ci sono i poetanti. Allora, i poetanti sono indubbiamente tantissimi, sono
molti di più dei soggetti leggenti. Ci sono molte più persone che scrivono
versi di quelle che li leggono. Questo è uno – appunto – dei paradossi della
sfera che io chiamo italiota. Poi ci sono i poeti, che sono quelli che invece
hanno una consapevolezza che scrivere poesia è innanzitutto fare un lavoro che
io definisco da italieno, cioè da straniero nella propria stessa lingua. È colui, ovvero, che
stabilisce una distanza critica rispetto al reale; è colui che vuole indicare
uno scarto, uno scarto dalla norma, dalla verbosfera, come è stato detto giustamente
prima da Beppe Sebaste. La verbosfera della comunicazione che domina tutto, che
ha distrutto ovviamente qualsiasi senso culturale del nostro vivere. Ecco, in
quelle poche composizioni di Luca Succhiarelli si sentiva che c'era appunto un
giovane poeta, non poetante, che cercava già di perimetrare fortemente, con
grande consapevolezza, la propria autonomia espressiva e stilistica. Questa
autonomia appunto espressiva e stilistica è uno scarto che significa anche una
cosa ben precisa. Significa in qualche modo dichiarare una sorta di dissidenza
anche psicoetica rispetto al mondo. L'atto del poetare è, come dico nella
prefazione al libro, un atto che sussegue già a una decisione, a una sorta di
comando interiore. Questo comando interiore è la disobbedienza. Io
disobbedisco. Nel momento in cui ho già disobbedito non posso non poetare, sono
già effettualmente un poeta del vivere. E questo atto di disobbedienza poetica
è un atto, volens nolens, politico, un atto della polis, cioè
un'esperienza di opposizione che è certamente iperminoritaria oggi,
assolutamente liminare, ma è tanto più appunto necessaria per cercare di capire
che cosa sopravvive dell'umano in un'epoca che sta andando sempre più
progressivamente, forse ineluttabilmente, verso il postumano. Non è un caso che
oggi gli unici poeti che vengono promossi dal sistema mediatico editoriale sono
quelli che non disturbano, sono quelli che non vogliono perturbare. Potrei fare
vari nomi. Non lo so se è il caso di farli, ma, per esempio, a livello
mediatico, se c'è appunto una figura che è stata imposta come la poetessa
veggente, la poetessa folle, quasi invasata dal dire, questa è Alda Merini:
simpatica persona, che però era il modello del poeta ridotto a personaggio, a
clown, a clown della sua stessa follia, della sua stessa marginalità. Ecco, il
sistema della comunicazione ti deve incasellare in un ruolo, in un ruolo che
significa anche la neutralizzazione. Quella poesia là non disturba, è una
poesia tutto sommato che scorre facilmente. Ma ci sono vari altri poeti che
hanno questa posizione che io definisco creaturale, da anime belle, che è una
scrittura spesso di tipo parenetico, cioè esortativo, predicatorio,
conciliatorio, autoconsolatorio. Una poesia che è quella che, poi, viene anche
principalmente veicolata dalla nostra accademia. Direi che è quasi l'unica che
viene sostenuta e propalata dalle istituzioni universitarie. Una poesia
sottratta a quella che il poeta, l'autore che prima citava Luca, Mario Lunetta,
definiva la poesia della contraddizione, il senso della contraddizione, la
contraddizione materialista nel fare poesia, cioè nell'avere presente che la
poesia è innanzitutto costruirsi una voce, una voce che deve cercare di
contraddire. Nella contraddizione c'è la propria specificazione. Luca è uno dei
pochi poeti, non poetanti, che mi è accaduto appunto di avvistare delle ultime
generazioni. C'è oggi una sorta di entropia del senso poetico in questo paese
che mi colpisce molto, avendo cominciato tanti anni fa. Per lo meno della
poesia che ancora si basa su una scrittura di tipo lineare. Perché poi –
guardate – c'è anche un'altra sfera di, chiamiamola, vocalizzazione poetica, di
oratura poetica, come dice il mio amico Lello Voce, che è un'esperienza legata
per l'appunto alla slam poetry. Recentemente mi è capitato di ritornare
a vedere uno slam e ci sono indubbiamente dei giovani poeti slammer
che sono diventati anche in questo nostro paese quasi dei professionisti. Sono
tutti abili, ce ne sono alcuni veramente molto bravi. Memorizzano tutto, e
hanno un'impostazione anche di tipo spettacolare-teatrale. È un altro fenomeno
ancora che però, non in tutti i casi, ma in gran parte dei casi mostra chiari
limiti. La poesia slam, la slam poetry regge poco sul piano del
testo, del testo che si va a leggere, del testo scritto. Un po' come – che ne
so? – i cantautori. I migliori dei quali fanno, certamente, una forma di
poesia-canzone, però è vero che quei loro testi, avulsi dalla voce cantante e
dalla musica, non reggono sostanzialmente alla lettura, non reggono senza
l'azione performativa. E questo vale per tutti. Vale anche, obiettivamente, per
Bob Dylan, che è stato recentemente insignito del Premio Nobel. Io non ho nulla
personalmente contro il Nobel a Bob Dylan, va benissimo. È un grande poeta
della musica, però non si può non dire che i testi di Bob Dylan non sono i
testi di Ezra Pound o di T. S. Eliot. Insomma, la distanza rimane ed è
incolmabile.
Questa di Luca è una
poesia che io in qualche modo accomuno a una poesia di resistenza, di
resilienza. Io giusto venticinque anni fa curai un'antologia a più voci che si
chiamava Resistenze[i],
rigorosamente al plurale, che includeva autori con poetiche molto diverse,
molto differenti tra di loro, con posizioni anche politiche molto diverse tra
di loro, e però tutti, a modo proprio, incentrati su una ricerca di resistenza,
di oppositività critica, ideocritica, psicoattiva rispetto alla situazione
poetica di allora. E io scrissi per quella pubblicazione una prefazione critica
di cui vorrei leggere qualche brano perché, dopo venticinque anni,
rileggendola, mi sono reso conto che tutto sommato è cambiato ben poco. Anzi
forse qualcosa è cambiato, poi dirò che cosa. Dicevo:
Resistenze
coniuga un sentimento di rielaborazione del lutto con la necessità di una
manifestazione ideocritica e polemica verso l'esistente codificata non su
a-priori estetico-ideologici, ma su criteri di dubbio ermeneutico e volontà di
ri-conoscimento intersoggettivo. Il ripensamento della sconfitta concerne il
fallimento del progetto illuminista-moderno, con il suo prolungamento di
sinistra, teso ad una formazione culturale per tutti, ad una paideia
egualitaria e a prolegomeni di una letteratura progressista. L'eclissi
rivoluzionaria, la profondità e vastità della sua delegittimazione
filosofico-politica appaiono minare ogni possibilità di nozione contestativa,
di pensiero oppositivo. È arduo e stolto ignorare ciò. Resistere e ricostruire
un tessuto intraconnettivo di scritture dentro e contro implica
che la sintesi del lutto non sia passività da muro del pianto, ma slancio
dinamico-creativo che porti ad una indispensabile svolta.[ii]
Io questo lo scrivevo
due-tre anni dopo la caduta del muro di Berlino e tutto quel cambio, quella
svolta in qualche modo epocale, quel passaggio d'epoca decisivo, nel cui solco,
nella cui deriva tutt'ora noi siamo. E dicevo:
Svolta di
atteggiamento e di coscienza culturale complessivi, in dialettico e
compenetrante conflitto con lo ZeitGeist del presente (e con se stessi).
Il super-kultur-market – e il Postmoderno come sua intrinseca sussunzione
immaginifica – della società di massa ha spazzato via un gran numero di
illusioni metodologiche. La sovrapproduzione letteraria travolge ogni cifra di
valori estetici a vantaggio di quelli statistici (vedi le liste dei
best-sellers), il suo fenomenico sviluppo esige allora che ciascuna distinzione
(im)portante scaturisca dalle strategie relazionali interne-esterne, dalla
trama delle ricchezze per surplus limitrofico, da una linea di sospetto che per
elaborazioni interdiscorsive e urti linguistici e concettuali suggerisca il
costante rinvio dalla produzione ai rapporti di produzione.
[...]
Resistenze per
plausibilità poetica, per incisività stilistica, per intenzionalità
compositiva, per coscienza espressiva, per rispondenza semantica, per eversione
comunicativa, per disoccultamento ricettivo, per modalità frattalica, per
contaminazione intraverbal-soggettiva.[iii]
Ecco, qui c'era l'idea
di un'area di poeti che interagivano, che avevano dei punti limitrofici, di
limite reciproco in comune. La differenza è che Luca Succhiarelli venticinque
anni fa sicuramente, per me, avrebbe fatto parte di quest’area. Oggi io mi chiedo
Luca con chi può invero stabilire delle limitrofie di azione poetica, quali
sono appunto gli altri suoi compagni di viaggio. E terminavo:
«L'Io trema
perché sente che Polis è un luogo precario e terribile e che il soffio
di destini lontani è capace di far fondere le sue rabbiosamente blindate porte
in un attimo». Così, Guido Ceronetti. Io credo che l'ego a nove teste di questo
libro sia tutto meno che un'idra tremebonda. Come un hopefulmonster, un
mostro pieno di speranza attraversa Resistente la metropolitana jungla
lanciando i suoi poetici howls, modulando il suo versitonale urschrei
convinto che oggi, domani o dopo qualcuno risponderà. Altri verranno.
Conveniranno. Un'altra volta. Per un'altra svolta.[iv]
Era in qualche modo
ottimistico, ovviamente, questo finale. Parlavo dell'hopefulmonster, il
mostro pieno di speranza. Ecco, l'unica cosa che cambierei oggi, direi che il monster
oggi è hopelessmonster, è un mostro senza speranza. Non è che voglia
adesso apparire banalmente pessimista, catastrofista, ma io ho raggiunto da
tempo la convinzione che abbiamo varcato il punto di non ritorno dell'eclissi
della civiltà umanistica. In quale biospaziotempo attualmente noi abitiamo non
saprei esattamente dire. Sento per l'appunto che abbiamo alle spalle un intero
eone di vita poetico-culturale. Oggi quello che passa per letteratura è in
termini stringenti post-letteratura, o forse una forma di neo-letteratura dove
i valori del mercato e lo storytelling, cioè la comunicazione producono
un linguaggio che appiattisce tutto, dove gli autori che firmano i libri sono
sostanzialmente intercambiabili. Sfido chiunque ad aprire al presente – che ne
so? – cinque libri in contemporanea e a riconoscere per l'appunto gli autori.
Un tempo se io leggevo Landolfi non lo confondevo con Gadda, non lo confondevo
con Calvino, non lo confondevo con Pasolini.
Questo libro di poesia
di Luca forse, allora, non è un caso che porti un titolo come Bocca mia
taccio. Nel senso che nelle pieghe di questo libro, pure così
linguisticamente brillante, scoppiettante, nelle sue clausole stilistiche, però
c'è un'ombra che è quella della scrittura che io definirei di preterizione,
cioè di auto-interdizione, di sospensione, quasi di ammutolimento. La poesia
resistente oggi in qualche modo inclina al togliere più che all'aggiungere, e
il dire poetico declina e tende al tacere, all'azzittirsi, al silenzio come
terminale, finale atto di dissidenza, una mutezza ostile contro appunto la
diluviale lingua comunicativa omologatrice del mondo che ci circonda.
A me sembra molto bella
quest'opera, questa acquaforte di Paolo Canevari che sta all'interno del
libro, perché io la leggo in modo ambiguo: da una parte questi segni mi sono
sembrati in prima istanza dei buchi neri, quasi cosmici; dall'altra, però, mi
hanno fatto pensare anche alle gocce di inchiostro, quasi a un dripping
alla Jackson Pollock che è colato sulla pagina bianca, cercando come una
disperata resistenza contro il niveo candore della pagina bianca, che sarebbe
per l'appunto il silenzio finale, il silenzio terminale. Che era poi, se
volete, Mallarmé. Già – voglio dire – a fine Ottocento, le poesie mallarméane
configuravano delle parole, dei sintagmi isolati che quasi come delle macchie
d'inchiostro occupavano in maniera difforme la pagina bianca; e lui sosteneva
che il capolavoro finale – per l'appunto – è la pagina assolutamente
immacolata, come il postremo atto di rinascita della scrittura che si annulla,
che si annulla completamente. E forse non è un caso – credo – che i due poeti a
cui Luca in questo libro dedica delle poesie, cioè Mario Lunetta e Nanni Cagnone,
sono poeti, autori profondamente diversi, forse per certi versi antitetici,
però sono, credo, dei suoi points de repère. Oltre che di un dissentire,
sono in qualche modo figure falotiche, figure di declino, figure in via di
sparizione. C’è in loro, pur in modi assai differenti, un essere, un essere
poeta, un essere autorale che è in via di sparizione, che è in via di
progressiva consunzione. Ed è come se Luca Succhiarelli si assuma, da questo
punto di vista, un ruolo di testimone, di testimone tardo di un'epoca, di
qualcuno forse nato fuori tempo massimo e che però testardamente insegue i
fantasmi di un'epoca che l'ha preceduto. È questa forse l'unica missione che un
poeta degno di tal nome oggi si può assumere. In nome di una comunità di
resistenza tra ieri e oggi, di un dialogo che c’è tra noi di tipo
intergenerazionale, proprio dalla antologia Resistenze, dedico a Luca
una poesia che scrissi all'inizio del 1991 e che si intitola, parafrasando Karl
Kraus, Gli ultimi giorni della disumanità:
Gli ultimi giorni
della disumanità
volevo passarli
nella casa d'incuria,
romito sanatorio
o linceo.
Ma è tutto
prenotato. Mi spenderò allora,
estragonico, il
tempo di sabbia
mollando i
pappafichi verso mari apatici,
schiodandomi dal
centro vuoticcio,
salutando il
caosmico Avatàr.
Tra il suo
respiro e il mio niente
cade l'ombra di
sasso. Calma & gesso.
Sì, opporci ai
porci:
come tanti,
invero pochissimi,
dalla parte
sbagliata, il dàimon sbagliota
perseverando o lo
scarto pensiero.
Anacronistico
sempre anagogico
l'appuntamento è,
comunque, solo rimandato,
cauterizzata
l'animella, neutralizzato Natale
ci berremo sulla
bragia una sangrìa
con retrogusto
vero di metànoia.
Io e te, ricorda,
dopo mille e una
notte
l'anno prossimo a
Baghdad.[v]
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