Diario d’autore (27): note
random su R. Restante; G. Lombardo; P. P. PASOLINI; LO ‘SPIRITOCORPO’; iL
VERNACOLIERE; MTV; L’ANTI-MONTALE; F. fortini; S. D’Angelo; A. Sanges; g. moio;
c. spoletini; P. Virno; J. Panahi; dronisti; gemelle kessler; l. canfora;
dinasty agnelli.
di Marco
Palladini
Sguardo sulla
“Latitudine” di Rosella Restante ►Si è
tenuta presso lo Hyunnart Studio di Roma, dal 3 ottobre al 7 novembre, la
mostra Latitudine di
Rosella Restante. Sul pieghevole di presentazione dell’esposizione vi erano due
note critiche di Mimmo Grasso e del sottoscritto che qui riproduco:
Davanti a tanta parte dell’arte contemporanea fondata sull’esibizionismo, su un
battere e ribattere come reiterazione, non di rado, di formule di ‘successo’,
quella di Rosella Restante mi sembra un’arte in levare, declinata secondo un
lungo percorso imperniato su una essenzialità, su una economia di segni visivi
che senza pose o maniere trapassano dal micro al macrocosmo. “Latitudine”
allora come coordinata geografica ovvero misura di orientamento in uno spazio
atopico che è poi la forma specifica dello spaziotempo caosmico in cui si viene
a traslare un immaginario artistico lontano sia dal realismo, sia dal
mimetismo.
Restante segue o insegue una linea minimalista che ha
uno stigma, mi pare, di purezza e che si dà per visioni falotiche, appena
accennate, indefinite che conducono lo sguardo sul confine di una possibile
mondità locupletante o generale.
Qui le sue graffiature/graffiture su carta mi appaiono
quasi come l’inverso delle cancellature di Emilio Isgrò, invece di annullare,
di forcludere, evidenziano qualcosa che non sappiamo che cos’è, forse non lo sa
neppure l’artista che si fa medium, canale, strumento di scoperta, di
invenzione proprio nel senso dell’invenire, del trovare, disseppellire qualcosa
che è oscuramente nella sua testa e che viene alla luce, che si fa finalmente
‘vedere’.
Sui suoi grandi fogli Restante traccia sinuosi graffi
amorosi attorno ad una sorta di buco nero. Questi graffi bianco su bianco si
dispongono come celibi iper-pentagrammi di suoni muti o come fitte gabbie che
imprigionano l’invisibile, talora contrassegnate da scure impronte geometriche,
che talvolta richiamano curiosamente faccine da emoticon. Segni elementari per
una purità della visione Black & White pure come disseminazione
pulviscolare dell’inchiostratura.
Le opere di Rosella Restante anche in passato si sono
poste come mappe, report odeporici, ossia cartografie per un viaggiare, forse,
verso nessundove, per un viaggiare per viaggiare, per un viaggiare come
primigenia ispirazione esistenziale-artistica. Ciò che mi fa pensare al
filosofo francese François Jullien che di contro all’ossessione del pensiero
occidentale tutta concentrata su “l’essere”, oppone la visione dei sapienti
cinesi «che si sono occupati della “processualità”, di come le cose procedono.
Questo significa il Tao: non la via che conduce a una meta, ma la via
attraverso cui si procede, in cui si trova la vita. “Il mondo muore ogni
giorno, il mondo nasce ogni giorno”…».
In questo ciclo quotidiano di morte-rinascita l’arte
di Restante mi pare che si possa benissimo situare e procedere con la sua
antifigurativa forza immaginale che crea e ricrea in permanenza il proprio
mondo come occupazione dello spazio, come gioco trasmutante fra segni e
materia.
“Mondo a venire” ► Confesso che nulla sapevo di Giovanni Lombardo quando Nino
Contiliano mi ha fatto avere un suo libro postumo in versi intitolato Tra i
passaggi di un mondo a venire (Quaderni di Spiragli – Centro Internazionale
di Cultura “Lilybaeum”, 2025). Leggendo le note biografiche si apprende che
Lombardo (siciliano di Marsala come Contiliano), morto nel 2024 a 84 anni, è
stato nella sua vita «professore di Lettere e preside, poi, di scuole superiori
di secondo grado».
Tale informazione
aiuta subito a inquadrare la sua scrittura poetica che, soprattutto nella prima
sezione del volume “Il mondo che non vogliamo”, esterna un taglio
etico-politico e pedagogico molto evidente. Un taglio che innerva un flusso di
poesia civile e di civile indignazione come in un testo ancor più attuale oggi
di ieri: «Non posso più leggere gli scienziati della guerra / non posso
ascoltare / la loro calma è micidiale / come la loro matematica esatta
intelligenza // (…) Non posso ascoltare gli scienziati della guerra / i cani
pazienti attendono la scodella del padrone / e preparano morsi / la luna
rovescia splendore radioattivo / i dolci tuoi occhi sbalorditi aduncano il
futuro / in un soffio di molecole spezzate // Non posso ascoltare più gli
scienziati della guerra».
Dalle note curricolari
risulta che Lombardo, credente cristiano che aveva aderito alla Chiesa Valdese,
era stato in passato partecipe del movimento siciliano “Antigruppo” votato a
una poesia di ispirazione sperimentale o d’avanguardia. Questi testi ultimi,
ritrovati dai familiari dopo il suo decesso, hanno però un altro indirizzo
assai lineare e comunicativo. Pur se Contiliano (lui pure membro
dell’“Antigruppo”) nella sua prefazione critica insiste sulla dimensione
sfaccettata, sarcastica, polisemica della poesia di Lombardo, sottolineando «un
testo (Mondo ha Trump ha mondo) a forte empito est-etico-politico
scagliato contro le infamie del tempo presente e versus le molteplici
forme del dominio. La vigorosa carica espressivo-comunicativa è già nella forma
chiasmatica (parallelismo invertito) del titolo e nella dissociazione semantica
dei termini che significano e avvisano. L’inversione chiasmatica – in questo caso
– riguarda la relazione tra “Mondo” e “Trump” (quasi un’interdipendenza o una
simbiosi)».
Personalmente però
prediligo un testo come “Serbia” dove Lombardo da spettatore televisivo delle
innumeri tragedie storico-belliche e sociali del nostro tempo, non esita a
denunciare, con accenti di verità, il proprio sentimento, anche un po’
colpevole, di impotenza (sua, ma in fondo di tutti noi che ipocritamente guardiamo):
«Intanto io prendo il caffè dinnanzi alla TV come trentanni fa / c’è sempre il
parassita televisivo / ci sono sempre anche quegli altri / offrono rabbia,
lacrime, cori combattivi, cartelli e striscioni / alle videocamere /
improvvisati operatori, sperimentati registi / raccolgono immagini /
piani-sequenza di sfasci sociali / per futuri e ben pagati documentari / e io
mi sto sbucciando un’arancia e mi fingo / – e ci credo pure – solidale con quei poveracci
mentre / la mia pensione scorre regolare / mese dopo mese e il frigo non è
vuoto / e guardo lontano…».
Nella seconda sezione
del libro “Senza frontiere, Ciao sole”, il tono cambia considerevolmente, si fa
più disteso e liricamente acceso, prevalgono le molte poesie dedicate alla
moglie Gabriella, ai figli e ai nipoti, con uno sguardo che non cede al pessimismo
e che riapre, vuole riaprire al futuro. Ma in primis mi piacciono i versi colmi
di quotidiana tenerezza rivolti alla consorte: «Mi sveglio / E tu sei accanto a
me. / Strano, la vita mi ha donato un’alba / Che apre ogni mattina i bei colori
/ E m’accompagna // (…) Le solite questioni di ogni tempo / I litigi finiti giù
nel broncio / Le incazzature travolgenti e azzurre. / Oggi sorridi e la pelle è
tutta fresca / degli anni lunghi di cui siamo ricchi».
L’amore coniugale un
poco lenisce i dolori per un «mondo a venire» che, per ora, non vuole venire.
La
peculiarità di questo omaggio al poeta ucciso brutalmente mezzo secolo fa
all’Idroscalo di Ostia, sta nella mia rivisitazione dei suoi testi in versi
tradotti/travasati in un neo romanesco o ‘rommanesco’ di mio conio. Un dialetto
che è anche un idioletto. Ossia quasi una lingua personale nel solco della
sperimentazione linguistica che da sempre connota la mia scrittura poetica. Una operazione assolutamente inedita che, mi
illudo, non sarebbe dispiaciuta a PPP, cultore della poesia dialettale. Ero
infatti partito dalla constatazione che PPP, esperto appunto
dei dialetti (vedi l’antologia che curò con Mario Dell’Arco), aveva scritto due
romanzi in romanesco, anche con la consulenza di Sergio Citti, ma nulla in
poesia, mentre in versi è ragguardevole la sua produzione in dialetto friulano.
Così, mi è venuta la voglia di colmare questo... buco e mi sono applicato a una
‘traduzione’ che, come detto, è una reinvenzione, dal momento che il romanesco
non esiste come lingua vernacolare codificata. Così, si può dire che nella
partitura testuale che ho approntato PPP c’è e insieme non c’è, è stato in un
certo senso ‘palladinizzato’. Questo recital
oltrepasoliniano è poi però, anche, un omaggio a Roma attraverso il suono di
una lingua o linguaccia, come poetava il grande Mauro Marè: «Zozza, boja,
balorda ’sta linguaccia / romanesca che nun ce poi fa un volo / più su d’uno
starnazzo. È bona solo / a pijà tutto er monno a pesci in faccia».
Peraltro, l’incontro e la sinergia
musicale e poetica con Morrone implementava l’intento di esplorare il fecondo,
appassionato e contraddittorio rapporto tra lo scrittore di origine
bolognese-friulana e la città, Roma, dove trascorse a partire dai primi anni
Cinquanta tutta la sua vita adulta sino al tragico assassinio. Nei molteplici
percorsi pasoliniani dalla periferia di Pietralata, della Casilina, del
Quadraro e del Trullo, alle zone centrali delle Terme di Caracalla, di
Testaccio, di Trastevere, di San Pietro, ai quartieri borghesi come Monteverde,
l’Esquilino o i Parioli, emerge uno sguardo vibratile e affascinato, ma anche
spietato e lucidamente critico sulla grande bellezza come sulla grande
bruttezza di Roma. Sulle grandi disuguaglianze sociali e sui suoi paesaggi
monumentali o urbani-coloniali, sulla vitalità antica, ma pure
sull’abbrutimento del popolo e popolino capitolino. Pasolini interpreta e
rimastica una dimensione socio-antropologica pressoché preistorica, ma al
contempo antevede la sua eclissi, l’avvento di una Dopostoria, di una mutazione
antropo-culturale radicale, il cui effetto di deriva ancora stiamo vivendo e
scontando al presente.
Dunque, un recital ‘corsaro’ in cui la
colonna cantautorale, sia in italiano che in romanesco, era idonea a connettere
il passato e la contemporaneità in modi originali e sempre reattivi. Nella
convinzione che nel succedersi delle epoche e delle genti, «Romma sta sicuro
che nun fenisce… / E si la Città Etterna dura e no, nun cessa / Ancora sogna er
sogno cinnico de se stessa».
Spiritocorpo ► Qualche tempo
fa mi è capitato di rivedere un antico amico, regista e attore del teatro
d’avanguardia o di ricerca che fu, oggi ultra-ottuagenario. Gli ho chiesto come
stava e lui mi ha fatto il non lieto elenco di tutti i malanni e le patologie
di cui ha sofferto nell’ultimo anno di vita. Secondo affermava lo scrittore
Philip Roth «la vecchiaia è una tragedia» (non la morte che quando c’è lei, tu
non ci sei più). In ogni caso, a un certo punto della sua geremiade questo
amico ha pronunciato una frase chiave: «Perché, vedi, dentro io mi sento ancora
un ragazzo», sottintendendo che il corpo purtroppo non lo sa (di ‘ospitare un
ragazzo’). È in questa schisi che si manifesta precipuamente la malattia della
vecchiaia: da una parte, lo spirito o la psiche ha una propriocezione peculiare,
come se il tempo si fosse fermato e la gioventù interiore si fosse, in qualche
modo, eternizzata e volesse appunto continuare a fare tutte le cose che si
faceva da ragazzi. E questo, pure se appare assurdo, non è irreale, è la realtà
dell’anima che bypassa le barriere temporali, che forse sa, ontogeneticamente,
che il tempo non esiste, come ci spiega la fisica quantistica secondo la
divulgazione dello scienziato Carlo Rovelli (vedi L’ordine del tempo,
2017). Dall’altra parte, c’è la realtà prosastica, infelice del corpo che
decade, si ammala, si riempie di acciacchi, disturbi, affezioni sino a
diventare infermo, non più autosufficiente. Ecco la vecchiaia può vivere nel
permanente, progressivo conflitto tra queste due realtà dello spiritocorpo che
è unico e, insieme, è una endiade. È un conflitto irresolubile che attende
soltanto il definitivo stop. A cui si spera di arrivare conservando un residuo
brandello di materiale ‘dignitas’.
Questo mi
richiama la recente pubblicazione di una commendevole antologia poetica, Non
nel nostro nome (Edizioni Mondo Nuovo, 2025), curata da Massimo Pamio e
Adam Vaccaro, che include cento autori in versi (quorum ego) “in difesa della
dignità umana”.
E neppure
a farlo apposta il testo che ivi ho pubblicato ha a che fare proprio con la
dignità dello spiritocorpo:
Pensare
il corpo
Pensare il corpo più che pensare al corpo
Ontologia del corpo pensato secondo la lezione di Jean-Luc Nancy
L’esistenza come messinscena nel e del corpo
Un corpo-teatro che apre al mondo e che inaugura un mondo
Tutto meno che incorporeo
Il corpo pensiero come sostanza fisica, tangibile, sensoriale
Il corpo olistico tra dentro e fuori, interiore ed esteriore
Il corpo tattile, che fa contatto con la propria pelle
Che scrive sulla pelle, che accoglie tatuaggi sulla pelle
Il corpo che si fa orgogliosa scrizione, insegna della propria
singolarità
È anche il corpo che si rispecchia nella comunità dei corpi altrui
Il corpo psichico attraversato da sentimenti e pulsioni contrastanti
Il corpo animale, biologico che non si sottrae al rischio permanente
Il corpo penetrato o abitato da intrusi che gli portano malattia e
morte
Il corpo idealizzato o disprezzato nell’arco tra la giovinezza e la
vecchiaia
Il corpo ferito, mutilato, protesizzato, chirurgicamente trapiantato o
estetizzato
Il corpo bianco e nero, mutante, trasformato, cyborghizzato
Il corpo sensuale e sessuale, fonte del massimo dei piaceri
Il corpo erotico come fonte di costante, gaudiosa rivitalizzazione
Pensare il corpo, pesare il corpo, spiritomateria plurisemica
Che è tutto ciò che abbiamo, ovvero siamo
Il Vernacoliere ► Contrordine compagni! “Il Vernacoliere” vive e lotta ancora
assieme a noi! A metà ottobre era giunta la notizia che avrebbe chiuso i battenti “Il Vernacoliere”, il mensile satirico
livornese, le cui radici risalgono a ben 65 anni fa nell’ambito del giornale
“Livorno Cronaca” e che poi era diventato una rivista autonoma nel 1982.
L’annuncio lo aveva dato il sempiterno direttore del “Vernacoliere”, il quasi
novantenne Mario Cardinali. In questa annunciata chiusura c’entrava, credo, la
avanzata età e la conseguente stanchezza del suo indomabile fondatore e
animatore. Ma probabilmente pure la considerazione che in oltre quarant’anni vi
era stato un cambio radicale del quadro epocale, sotto il profilo editoriale, psicoculturale
e politico.
La sfrenata satira del “Vernacoliere”, imbevuta
di sarcasmo linguistico-umorale livornese, era ed è acuta, puntuale, frizzante
e pungente ma, al contempo, anche di grana grossa, dedita al motteggiare dialettale-turpiloquiante,
scatologico, sessuomane etc. Tutto quello, insomma, che il ‘politicamente
corretto’, la cultura o sub-cultura wokista oggi denuncia e condanna, finendo
per fare diventare il vero o presunto progressismo sinistrese una palese
modalità di nuova censura, di repressione moralistica della libertà di presa
per i fondelli. Altro che il ‘vietato vietare’ del libertario ’68.
Epperò, dopo una breve sospensione delle
pubblicazioni, con un colpo di coda ‘vernacolare’, il giornale è tornato in
edicola, tosto e resiliente come prima. Ed è davvero una buona notizia che di questi
tempi grigi e tristi assai, dove tutti si offendono per qualche cosa, “Il
Vernacoliere” non demorda e livornesemente ‘vada in kulo’ a tutti coloro a cui
sta sulle balle.
MTV out ► Vedo confermata,
invece, la notizia, che MTV, la
Music Television nata nel 1984, chiude i suoi canali europei. Del resto,
dall’84 al presente, pure in questo ambito, è cambiato tutto. Allora, tranne
forse i lettori della fantascienza cyberpunk di William Gibson e Bruce
Sterling, nessuno poteva immaginare l’avvento di Internet, oggi è evidente che
la rete e YouTube hanno completamente mutato i modi di fruire i video musicali
e hanno prima vampirizzato e, poscia, messo fuori gioco MTV. La quale era, in
fondo, una emittente ‘generalista’ specializzata nel veicolare principalmente
musica pop e rock con la programmazione h. 24 dei relativi videoclip, non pochi
dei quali, peraltro, erano filmicamente straordinari: cito soltanto, tra i
tanti, il long video capolavoro Thriller di Michael Jackson, diretto da
John Landis; e Sledgehammer di Peter Gabriel, firmato da Stephen R.
Johnson; o Came Back Haunted dei Nine Inch Nails per la regia di David
Lynch. Muta la tecnologia e i canali di fruizione-promozione musicale si
diversificano e diventano, al contempo, democratici. Perché in fondo chiunque
può caricare oggi un suo video su YouTube o Instagram o Tik Tok e, magari,
raccogliere milioni di visualizzazioni e diventare famoso, fosse soltanto per
un quarto d’ora (come preconizzava Andy Warhol). Mentre MTV era, se non
vogliamo raccontarci frottole, dominata ed eterodiretta dalle strategie
pubblicitarie delle case discografiche che pagavano profumatamente per avere
una clip in cosiddetta ‘heavy rotation’. Insomma, ‘todo cambia’ tra pro e
contro e questo riguarda pure la musica pop e rock medesima, laddove oggi si
fanno dischi non per vendere (c’è il crollo assoluto del mercato discografico,
tranne qualche eccezione, tipo Taylor Swift), ma per avere il pretesto per fare
un nuovo tour, per un nuovo ‘live’. Oggi si fa musica popolare essenzialmente
per suonarla (e dunque guadagnare) dal vivo. Perciò, forse è così difficile
ascoltare qualcosa di nuovo, nessuno sperimenta più, nessuno ricerca soluzioni
sonoro-espressive di conio diverso (un Sergent Pepper beatlesiano o un Hot
Rats frankzappiano oggi ce li sogniamo). Così, si moltiplicano le ‘reunion’
di band di sessantenni, settantenni, persino ottantenni. Tanto suonano come e
meglio dei ventenni.
Secondo recita il titolo del mio ultimo libro
di racconti: “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”. Non soltanto chiude MTV, dunque,
ma l’intero panorama musicale generalista mi appare oggi affollato di vivimorti
o mortivivi che dir piaccia… augh.
L’anti-Montale ► L’anti-Montale: soltanto questo possiamo oggi non dirti:
1 – ciò che siamo, ciò
che vogliamo (naturalmente se sapessimo dirlo o dirtelo).
2 – che siamo perduti
in partenza e che vogliamo, ossia vorremmo, fortemente vorremmo non esserlo.
Franco Fortini - 1960 ► Dal libro L’ospite ingrato: « (…) Uomini del futuro ricchi di
proteine / e benevoli, l’uno aiutato dall’altro, / non rammentate chi siamo
stati, non pensate / a noi con indulgenza. // Abbiamo sopportate mostruose cose
fra noi / dicendole insopportabili, scrutando / sorrisi di condiscendenza / sul
volto dei nostri assassini…».
Sessantacinque anni fa Franco
Fortini già poetava «Abbiamo sopportate mostruose cose fra noi / dicendole
insopportabili» e a me sembra che stia parlando dell’hic et nunc, di un adesso
bio-storico-politico, come pervaso da profetica chiaroveggenza sulle
mostruosità dell’oggi. Ma forse, rifletto, di epoca in epoca, le ‘mostruose
cose insopportabili’ sempre si rinnovano e si ripresentano, differenti ma
eguali, mettendo a nudo la nostra ipocrisia e la nostra effettuale impotenza o
ignavia nel sopportarle più o meno tranquillamente. Di diverso c’è che al
presente, però, non vedo figure pari all’autore fiorentino, di cui ho sempre
ammirato la spietatezza critica e autocritica, propria di chi non faceva mai
sconti né a sé né agli altri.
Letture in pillole ► Pesco nell’antologia I Poeti di Ponte Vecchio (Dantebus Edizioni, 2025) un poemetto di Stefano
D’Angelo, Fine dell’opera, che si fa apprezzare per la sua
dimensione epica, sliricata, decostruita. Mi sembra palese la sua scaturigine
dall’asse poetico Ezra Pound / T. S. Eliot, ovvero dal modernismo letterario novecentesco,
quello ipercolto e maturo che bypassa sia la tradizione che l’avanguardia,
centrifugando materiali spuri, dialettici e diacronici. Come per sancire una
Finis Historiae che però, forse, secondo in Samuel Beckett continua, non si
arrende, transfinisce.
A proposito di Beckett è un suo appassionato studioso il 34enne lucano Antonio
Sanges, che mi fa avere la sua terza raccolta poetica intitolata Distensione
del destino (Edizioni Ensemble, 2025). Compulsando la plaquette, che reca
in copertina la foto di un ondoso mare al crepuscolo, balza agli occhi del
lettore un verso chiave: «io mi sto dentro il mondo antico».
E si percepisce, infatti, molto nettamente nel soggetto scrivente,
nonostante la sua giovane età, il profilo di un uomo antico che richiama a sé
millenarie storie pregresse, epopee, epiche e distonie del lungo cammino dell’uomo
‘sapiens’. Intrecciato a questo, inoltre, si evidenzia la dimensione dell’homo meridianus
(«limpida / lucida / fede meridionale!»), quella propriamente riverberata nel ‘pensiero
meridiano’ richiamato da Franco Cassano, anche nel suo rapporto tradizionale,
stratificato, ma mai pacificato con la natura.
Quanto al dettato poetico dell’autore di Tricarico, quelli che preferisco
sono i testi dove i versi si distendono ritmicamente tra rime, assonanze e
allitterazioni come “Teatro” e “Congedo”. È, senz’altro, una poesia lineare la sua,
ma riflessiva e talora desolata, mai liricamente vacua.
Una poesia destinale che in limine sembra abbracciare un obliquo ‘amor fati’,
secondo traluce nei versi del brano eponimo terminale che pare scritto da un
post-Don Chisciotte: «… Grande è il cammino degli uomini. / Grande è il futuro
che hanno davanti. // … Prossimi alla radura / vuota dove la luce / è più
distante / della nostra pace, / rallentiamo il passo / dei nostri cavalli
pazienti. / Perché conosciamo / già quello che conosceremo / che la distanza
non esiste / che è inconoscibile il sentiero / che porta alla scoperta / verso
dopo verso».
Mi giunge da Giorgio Moio (n. 1959), maturo e consolidato autore
napoletano di spiccata attitudine sperimentale, una sorta di auto-antologia
intitolata Poesie sparse 2009-2023 (Edizioni Frequenze Poetiche, 2025).
In verità, sfogliando il libro, l’indicazione temporale risulta parzialmente
mendace perché nella prima parte compaiono non pochi testi composti negli anni
’80 dello scorso secolo, quando Moio ventenne stava facendo il suo
apprendistato poetico, già mescolando con ironia lingua e dialetto [’O vi lloco
’o dicere -1985]: «Parlo ’e na cosa / ’e scrivo n’ata, / scrivo nu penziero
/ ma penzo a n’ato; / na parola m’alloca ’o dicere / ma po’ faccio n’ata cosa.
/ Sarrà ca me sto ’nfrascanno / o sarrà ca sto capenno comm se scrive na
poesia? (Ecco qua il dire – Parlo di una cosa / e ne scrivo un’altra, /
scrivo un pensiero / ma penso a un altro; / una parola mi indica il dire / ma
poi faccio altro. / Sarà che sto rimbambendo / o sarà che sto capendo / come si
scrive una poesia?)».
Di Moio poeta – senza parlare dell’operoso critico, del direttore di
riviste e, anche, dello storiografo letterario – quello che mi ha sempre
colpito è il suo eclettismo che, nel suo caso, non è un facilone voler fare
tutto, ma una ben ponderata apertura di raggio espressivo, per cui lui passa
dalla poesia lineare, sia in italiano sia in napoletano, alla poesia
verbovisiva, sino alle scritture asemiche. Di più nella scrittura lineare si alternano
scritture regolari, convenzionali con testi intraverbali, mistilingui,
tipograficamente spurî, con decostruzioni ludico-fonetiche efferate, forme
verbali anagrammate assieme a neologismi a cascata in assonanza e per
rifrazione. Ecco la fantasia sperimentale di Moio è quasi senza confini, per
cui il suo poetare è liberamente pluridirezionale passando da toni esistenziali
o descrittivi a saggi di poesia civile e invettiva, schegge in qualche modo
elegiache si avvicendano con composizioni giocose che si fanno pressoché poesia
sonora da oralizzare convenientemente. Pure i suoi riferimenti ispirativi
traggono alimento da autori assai lontani tra loro: così accanto a un acrostico
“non consolatorio” dedicato a Pasolini si può trovare un omaggio
intercitazionista a Milli Graffi, pugnace autrice dell’ultima neoavanguardia (Mi
tiro fuori da babilonya). Dunque, un poeta totale Moio che pure si
dissimula argutamente, quando scrive che: «le parole
si aggrovigliano su se stesse. un poeta / che non gioca almeno una volta con le
parole è un poeta / a metà, anche se alla fine vincono
sempre loro: le parole. / io ho sempre giocato con le parole
anagrammandole / verso il nonsenso,
/ sezionandole, cesellandole, ma sono rimasto comunque / un poeta a metà».
Si apprezza l’understatement, ma non si direbbe invero.
Un libro da vedere più che da leggere (pur se contiene un sagace saggio del
critico d’arte Gabriele Perretta) è Ellis (JUS Museum Edizioni, 2024) di
Claudio Spoletini, fotopittore 76enne dal lungo e articolato percorso
artistico. Il volume è in sostanza il catalogo della mostra realizzata a
Velletri lo scorso anno (dal 27 settembre al 3 novembre) e curata per l’appunto
da Perretta. Se non ho inteso male l’esposizione nasce da antiche memorie
familiari dell’artista concernenti Ellis Island, la famosa-famigerata isoletta
alla foce del fiume Hudson a New York che, da fine ’800 sino alla metà e oltre
del ’900, è stata il luogo di ingresso in America per milioni di migranti
provenienti dal vecchio continente (irlandesi e tedeschi, svedesi e russi, norvegesi
e ucraini, russi e greci, olandesi e francesi, danesi e turchi e britannici e,
naturalmente, italiani – ben cinque milioni). L’opera di disseppellimento di
memoria di quel vero e proprio esodo massivo per fame e miseria si traduce nei
quadri ad olio di Spoletini realizzati secondo una tecnica fotopittorica
pixelata, esaltata dai colori accesi, brillanti, pastellati delle immagini.
Immagini, sottolinea Perretta, che «si cercano nei pattern di Ellis, si
sobillano, si associano, mosse da un desiderio quasi autobiografico che oggi,
nella disseminazione espositiva di Spoletini, vediamo fiorire in modi diversi.
Tra Planiverso e Multiverso, la sua passione nomade per Ellis Island ha
generato un Atlante autobiografico della Comunità Migrante di famiglia».
Un Atlante «con una tecnica post-divisionista-digitale» che sfogliamo
vedendo composite genti migranti, scorci di città, palazzi, grattacieli, aerei,
treni, automobili, navi, laghetti, porticcioli, fattorie, lavoratori di
campagna e operai in cima ai pali elettrici. In coda anche alcune
fotoinstallazioni, come dei mappamondi infilati in un vaso di vetro e una
valigia d’antan che contiene un “diorama di fabbrica”. La figuratività
decostruita di Spoletini mette capo a uno sguardo estetico in cui, solo, la realtà
di Ellis Island viene ad appresentarsi. Giacché, secondo afferma il filosofo Jean-Luc
Nancy, «… non può darsi presenza senza rappresentazione… Il reale, per poter
essere, deve essere presentato… la presentazione della presenza è la sua
manifestazione, la sua apparizione…».
Paolo Virno ► Ho in mente
una fotografia precisa di Paolo Virno, morto il 7 novembre u. s. a 73 anni.
Risale ai primissimi anni Settanta, sarà stato il 1971 o ’72: si era a Roma, ad
una assemblea cittadina di studenti, studenti medi se non erro, indetta dai
gruppi della sinistra extraparlamentare. Virno salì su una pedana arrangiata
con i capelli scuri arruffati, la sigaretta in mano, camicia, jeans e, addosso,
un trench bianco aperto a campana. Parlava con una voce arrochita, già da
fumatore accanito, una voce rabbiosa, fortemente assertiva come era d’uso nelle
situazioni assembleari. Virno era un dirigente studentesco di Potere Operaio,
che non pochi militanti della estrema sinistra di allora (io stavo in
Avanguardia Operaia) definivano ironicamente «il gvuppo choc pev il vagazzo
chic», alludendo al fatto che una formazione che spingeva verso forme di
scontro via via più violento, attirava, per lo meno nella capitale, parecchi
figli della borghesia medio-alta, che parlavano con la erre moscia. In ogni
caso, intervennero in tanti in quella lontanissima riunione studentesca, ma
l’unico che mi è rimasto inciso nella memoria è stato Paolo Virno. Questo dovrà
significare qualcosa, pure se non so bene che cosa.
Comunque, dopo
di allora non ebbi mai più modo di incrociare da vicino Virno. Nei furiosi e
accelerati ‘anni di fuoco’ dei ’70 la fase entropica della sinistra
rivoluzionaria arrivò rapidamente. Potere Operaio fu il primo gruppo a
sciogliersi, frammentandosi in diversi tronconi. Una parte, penso a Oreste
Scalzone e sul piano filosofico a Toni Negri, diede vita all’area della
Autonomia Operaia e all’area ‘creativa’ del movimento del Settantasette (Bifo);
un’altra parte, più teorico-politica, realizzò la rivista “Metropoli” (c’erano
Franco Piperno, Lanfranco Pace, Lauso Zagato, Lucio Castellano, ancora Scalzone
e, appunto, Paolo Virno); un’altra ancora, penso a Valerio Morucci e Adriana
Faranda, entrò nelle Brigate Rosse. Nelle more di quel convulso finale degli
anni ’70, dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, si scatenò la
repressione statale con l’inchiesta del 7 aprile 1979 e il famoso-famigerato
‘teorema Calogero’ che istituiva una connessione diretta tra l’Autonomia e le
BR, cioè tra la sovversione politica alla luce del sole e la lotta armata di un
gruppo clandestino. Connessione mai dimostrata, ma intanto valanghe di persone
vennero inquisite e arrestate, tra cui Virno. Che ne uscì, dalla sua odissea
carceraria-giudiziaria, soltanto una decina di anni dopo, andando a lavorare
nella redazione culturale del ‘manifesto’. Ma Virno non era un semplice giornalista,
emerse in quegli anni la sua prepotente qualità di pensatore di estrazione
marxista, che però indirizzò la sua ricerca dalle parti della filosofia del
linguaggio e della antropologia linguistica, diventando un docente in vari
atenei sia italiani, sia all’estero. In questo senso, distaccandosi dalla
cronaca politica, scrisse molti, importanti libri filosofici che, confesso, non
ho mai letto. Personalmente avevo preso, sin dalla fine dei ’70, un’altra strada,
quella letteraria, e i libri filosofici, politici, ideologici che avevo
divorato durante la mia adolescenza, non mi attiravano più. Però due anni fa mi
capitò di leggere, giusto sul ‘manifesto’, un articolo di Virno su Toni Negri
appena deceduto (16 dicembre 2023). Un articolo che non era un banale e rituale
‘coccodrillo’, bensì una doviziosa, articolata riflessione in cui Virno
proseguiva post-mortem il dialogo con il filosofo ed ex compagno di militanza
politica, di lui più anziano di 19 anni, il tempo di una generazione. Virno
ragionava in modo lucido e appassionato sui loro, ora convergenti, ora
divergenti approdi filosofici e teorico-politici, che erano stati in qualche
modo anche occasione di conflitto intellettuale (pur nel loro rimanere, entrambi,
e risolutamente dei comunisti). Ecco il tono e l’altezza e la serietà argomentativa
di quell’articolo mi richiamarono il ricordo di quel ragazzo che avevo ascoltato
parlare oltre mezzo secolo prima. Il quale aveva fin da allora una testa
intellettuale non ordinaria, anche se nel corso del tempo si era sbarazzato
della dogmatica ideologica rivoluzionaristica oramai inservibile, anzi nociva.
Ha rammentato sul ‘manifesto’ Marco Bascetta: «Facendo il verso agli esponenti
del Psi che negli anni Sessanta amavano definirsi la sinistra non marxista,
Paolo aveva coniato per sé… la definizione di “marxisti non di sinistra”. Si
intendeva con questo epiteto l’impiego e il rinnovamento di uno strumentario
critico non annacquato dalle culture del compromesso, né infettato da
fascinazioni populiste».
Forse, di più,
mi sembra che Virno nella sua critica filosofica progressivamente più complessa
e sofisticata e pluridirezionale, ma sempre orientata al superamento del
capitalismo, si fosse reso conto che lo stesso concetto di sinistra nel XXI
secolo fosse obsoleto, non più utile per l’obiettivo indicato da Karl Marx
della «abolizione dello stato di cose presenti». Addirittura, soggiungeva che
dirsi oggi comunisti significava essere fuori e contro la sinistra che aveva
incarnato lo stato come monopolio della decisione politica. Con ciò assumendo
una torsione teorica anarco-comunista palesemente opposta a quella che è stata
nel ’900 la linea ortodossa del movimento comunistico.
Mi sembra
questa una eredità, in qualche modo eretica, di visione filosofico-politica e
biopolitica, non post-marxista, ma esomarxista, per nulla scontata, anzi
cruciale.
Panahi ► L’ultimo film
di Jafar Panahi, Un semplice incidente, vincitore della Palma d’Oro a
Cannes 2025, pone un quesito etico probabilmente irresolubile sul senso della
vendetta politica. Quando e come è giustificata? O è sempre ingiustificata?
Nella pellicola, alla fine le vittime di indicibili torture rinunciano a
vendicarsi sul loro aguzzino, un pasdaran del regime iraniano degli ayatollah. Cioè,
rinunciano a diventare a loro volta dei carnefici, probabilmente riflettendo la
posizione del regista, più volte arrestato dal potere khomeinista (l’ultima
volta tra luglio 2022 e febbraio 2023 e che gira in condizioni di
semiclandestinità). Ma nell’ultima inquadratura si vede il protagonista di
spalle che si paralizza ascoltando ancora una volta il passo pesante,
picchiettante del torturatore che ha una gamba con una protesi. Come a dire che
gli oppositori al regime non si sono trasformati in vindici assassini, epperò
il regime degli assassini è ancora lì, in piedi e operante, sempre pronto a
scatenare i suoi sgherri e boia per uccidere di nuovo tante Mahsa Amini e i giovani
e meno giovani ribelli alla dittatura islamista scita (e puntuale all’inizio di
dicembre è, poi, arrivata la notizia che un tribunale iraniano ha condannato in
contumacia il regista a un anno di prigione. La macchina repressiva non si
ferma mai).
E allora che
fare? La vendetta privata non va bene, ma, ragiona Panahi, anche una
controrivoluzione collettiva che abbattesse il regime non rischierebbe di
ricadere nelle medesime pratiche di violenza e di sopraffazione?
Afferma il
regista (intervistato da Cristina Piccino): «Uno dei problemi principali nella
maggior parte delle rivoluzioni… è che chi arriva al potere dopo e magari è
stato vittima di chi c’era prima con il carcere, le torture e via dicendo,
finisce per comportarsi allo stesso modo. È come se non credessero che si possa
interrompere questa spirale di violenza e continuano sulla stessa via di chi
hanno rovesciato… La storia si ripete, da un regime nasce un altro regime».
Se così è, e purtroppo
la historia lo dimostra ad abundantiam, non c’è via d’uscita. Diciamo di volere
giustiziare i colpevoli e i malvagi, ma tra il volere essere giusti e il
diventare ingiusti il confine è labile, talora indistinguibile: la biopolitica
si tramuta quasi ineluttabilmente in necropolitica. L’uomo, la “scimmia nuda”
di cui parlava l’etologo Desmond Morris, è e rimane nella sua essenza una
scimmia assassina. L’etologia, peraltro, richiama il concetto di ‘ethos’ quello
su cui si incardina il libro di Baruch Spinoza Ethica more geometrico
demonstrata, che secondo Gilles Deleuze era il cuore, il centro stesso, il
vertice della filosofia, del fare filosofia. Solo che l’ethos dell’etologia riesce
a darci ragione dei comportamenti degli animali, mentre l’animale uomo sembra
ontologicamente proclive ad una violenza ingiusta, anti-etica contro cui è
arduo e problematico opporre una resistenza effettivamente giusta ed etica. Ed
è in questa aporia che ci dibattiamo tutti noi, filosofi e criminali al
medesimo tempo… augh.
Parole nuove: dronisti
► La guerra è sempre stata promotrice di nuove
armi e nuove tecnologie militari e quindi di parole nuove per designare gli
operatori bellici. Che so, prima dell’invenzione della lancia non c’erano i
lancieri; prima dei fucili non c’erano i fucilieri; prima delle granate non
c’erano i granatieri; prima dei carri armati non c’erano i carristi; prima dei
sommergibili non c’erano i sommergibilisti, etc. etc.
Così, in questa perdurante guerra
russo-ucraina l’uso costante e massivo di droni, anche di nuova generazione e
sempre più evoluti, ha fatto emergere la figura dei dronisti, soldati
specializzati sia nel guidare e nell’indirizzare i droni bomba contro gli
obiettivi nemici; sia nell’individuare e intercettare i droni lanciati dal
nemico. Il dronista come combattente tecnologico nelle more di un conflitto
duro, aspro e sanguinoso, nella sua essenza non diverso da quando la guerra
venti secoli fa si faceva con le spade, le asce, appunto le lance e gli scudi,
contrapponendosi in brutali, atroci corpo a corpo. La téchne cambia, ma la
testa degli uomini no, è come se la volontà di annientamento dell’altro da sé
fosse innata e, di epoca in epoca, vellicata da parole nuove che esprimono
soltanto l’horrore permanente della specie umana, troppo umana.
Kessler ► Non soltanto
massimo rispetto ma, da parte mia, totale solidarietà con le gemelle Alice ed
Ellen Kessler che se ne sono andate il 17 novembre u. s. a 89 anni con il
suicidio assistito. Una morte in comune da tempo annunciata e attentamente
pianificata e preparata con teutonica precisione e lucidità. Per il loro
suicidio assistito, pienamente legale in Germania all’opposto che in Italia, le
due sorelle si sono avvalse del supporto della Società Tedesca per la Morte
Umana. Aggettivo chiave per fare intendere che è un atto umano, più che umano
decidere liberamente di rinunciare alla propria vita ed entrare con piena
coscienza e senso di responsabilità nel regno del Grande Nulla. Un diritto che
l’ideologia cattolica continua dopo oltre venti secoli a denegare e a reprimere,
imponendo allo stato teoricamente laico e di conseguenza anche a chi non crede,
il principio autoritario che “la vita è un dono di dio” e quindi un individuo
non può disfarsi di questo presunto “dono” di un presunto “dio”. Il diktat dei
pro-life è davvero nell’anno di grazia 2025 insopportabile e imperdonabile. Per
questo saluto l’uscita di scena delle due bionde e affascinanti showgirl gemelle
con un lungo, fervido applauso… clap, clap, clap, clap, clap…
Contraddizioni ► Esce da
Laterza un nuovo saggio-pamphlet di Luciano Canfora intitolato Il porcospino
d’acciaio. Occidente ultimo atto, che è in buona sostanza una severa
requisitoria contro la narrazione retorica e subdolamente mendace che si fa sui
mass-merdia nostrani ed europei circa le virtù dell’Occidente (concetto in gran
misura fittizio) e sui suoi preclari valori di ‘libertà’ e ‘democrazia’, che
sono invero delle armi usate per secoli per giustificare una politica di
potenza e prepotenza, nonché di colonizzazione forzata di popoli e nazioni
considerati ‘inferiori’. Insigne storico e filologo classico di matrice
comunista, Canfora non fa sconti a questa vulgata falsificante che
esplicitamente ignora che per tenersi unito l’Occidente deve ogni volta
inventarsi un nemico assoluto e che è in base a questo principio che, dopo la
caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Urss e lo scioglimento del Patto
di Varsavia, la Nato invece di dissolversi pure lei, come sarebbe stato logico,
si è aggressivamente e progressivamente spostata verso est, secondo una
strategia palesemente provocatoria e ostile nei confronti della Russia. Con
ciò, Canfora stigmatizza duramente quelli che chiama i “menestrelli”
dell’Occidente, ovvero i solerti propagandisti mass-merdiatici impegnati a
demonizzare il nemico e a preparare la prossima guerra (effettualmente già in
corso). Con evidente sarcasmo Canfora, stando sul pezzo, irride alla presente caduta
di due fondamentali diktat propagandistici dei menestrelli: quello su gli Usa,
la maggiore democrazia mondiale, presidio e scudo degli interessi
dell’Occidente, cosa che oggi nel tempo del trumpismo a ruota libera risulta
difficile da sostenere; e quello su Israele come la sola democrazia del Medio
Oriente, da difendere ad ogni costo, al costo pure di farsi complici del
genocidio in atto a Gaza e nella Cisgiordania contro il popolo palestinese.
Ecco il pamphlet di Canfora è una sorta
di “ultimo atto” dello smantellamento critico del falso mito politico
dell’Occidente, mito criminogeno quant’altri mai.
Il problema nasce, per me, dal vedere
che un abstract del testo di Canfora è stato pubblicato (20 novembre u. s.)
sulla pagina culturale del Corriere della Sera, il maggiore quotidiano
italiano, ossia uno dei pilastri della truffaldina propaganda filo-Occidente,
affollato di menestrelli pennivendoli che sostengono esattamente le tesi messe
radicalmente sotto accusa dal professore barese. Chi avrà allora ragione? E chi
torto? Ossia ha ragione Canfora a concedere un’anteprima del suo scritto ad un giornale
che costituisce, di fatto, il campo nemico? O è sbagliato far sentire la
propria voce critica in una sede avversa che fa mostra di finta tolleranza,
tanto sappiamo, in ogni caso, che non cambierà posizione? E ha ragione la
direzione del Corsera ad ospitare un accademico che sta su un fronte opposto,
giusto per rimarcare la propria superiorità liberal-democratica? O è sbagliato
dare spazio a un intellettuale antagonista, dandogli modo di raggiungere una
larga messe di lettori, molti di più di quelli che verosimilmente troverà il
suo libro? Dilemmi cornuti, a cui ciascuno può dare la risposta che preferisce.
Comunque, la contraddizione c’è ed è lampante.
Dinasty Agnelli ► Entrando in un tribunale svizzero, nella cittadina di
Thun, per una udienza concernente la dura querelle giudiziaria che contrappone
Margherita Agnelli ai figli di primo letto, John, Lapo e Ginevra Elkann, a
proposito della eredità di Marella Caracciolo Agnelli, madre di Margherita, la
figlia dell’Avvocato non si è peritata di commentare: «è una storia triste e penosa».
Non entro nel merito delle accuse e
controaccuse, di cui nulla so, di questa disputa pressoché familiar-cannibalica
(in ballo ci sono tanti quattrini), ma da sempre mi colpisce come su tutte le
vicende, gli scheletri nell’armadio, gli affari torbidi e gli intrighi della
Dinasty Agnelli, ci sia presso i mass-media nostrani una sostanziale omertà.
Fin dai tempi di Gianni Agnelli, su cui giravano, a parte le storie e storiette
erotico-private, voci di colossali evasioni o elusioni (come dicono, con un elegante
eufemismo, gli straricchi) fiscali, la famiglia Agnelli è apparsa una casta di
intoccabili, su cui nessuno si permetteva di indagare, di approfondire, né
stampa e tivù, ma neppure la magistratura, tanto per essere chiari. Il fatto
che gli Agnelli fossero i proprietari della Fiat, cioè della principale
industria automobilistica italiana, nonché di un vasto e ramificato impero
economico-finanziario, è come se avesse funzionato da effettuale salvacondotto
per qualsiasi cosa facessero o che li riguardasse. Per esempio, sul suicidio di
Edoardo, il primogenito dell’Avvocato, le cui circostanze e modalità hanno
sollevato non pochi dubbi, nessuno ha contestato la versione ufficiale della
famiglia, rispettando rigorosamente la richiesta di silenzio.
Ancora più clamorosa è la vicenda concernente
il terzo fratello Agnelli (dopo Gianni e Umberto), Giorgio, di cui
personalmente, assieme alla maggioranza dei miei connazionali, non sapevo nulla
finché non vidi il documentario girato da Giovanni Piperno Il pezzo mancante
(2010). Documentario che visionai al cineclub Il Politecnico di Roma (oggi
scomparso) in compagnia di quattro o cinque persone e in cui, non in modi
scandalistici, ma attenti e precisi, si raccontava di un uomo dirazzante dalla
famiglia, che aveva velleità artistiche e, probabilmente, dei problemi
psicologici, ma conduceva comunque una estrosa vita da bohémien con una donna
che faceva la pittrice, che però metteva in imbarazzo la Dinasty. Così, a un
certo punto i fratelli decisero di farlo prelevare di peso (quasi un rapimento)
e di farlo portare in una clinica psichiatrica in Svizzera, dove nel 1965 Giorgio
Agnelli si tolse la vita.
Lavoro onesto e non autocensurato il film di
Piperno circolò pochissimo, dopo un po’ sparì nel silenzio dei mass-merdia che
si guardarono bene dal ‘turbare’ la famiglia ‘reale’ italiota. La quale oggi,
va rammentato, controlla due dei maggiori quotidiani nostrani, La Repubblica e
La Stampa. Ma anche i giornali di sinistra, pure radicale, non si sono mai
voluti intromettere o fare serie inchieste sulla Dinasty, l’esatto contrario
delle roventi campagne mass-mediatiche e giudiziarie che si scatenarono a suo tempo
contro Berlusconi. Anche qui, mi sembra, un doppio standard. Sì, come afferma
la signora Margherita Agnelli, è una storia triste e penosa… augh.
Rovesciando Baudelaire ► Un testo che mi è rampollato fuori per mero divertissement:
Il male è nei fiori
(canzone)
Grazie per i fiori
Grazie per i fiori
Grazie per i fiori
Grazie per i fiorini
Quelli sempre a caccia di quattrini
Quelli che li hanno, sì, graditi
Sono poi quelli che li hanno traditi
Sono i fiori del male
I fiori del male che ti assale
I fiori di un movimento spettrale
I fiori della panica infelicità
I fiori che non c’è più nessuno in città
Tanti mazzi di fiori
Per quelli che stanno di fuori
Mazzi di fiori colorati a mazzi
Se prima non ti ammazzi
Il male è nei fiori
Il male è nei fiori
Il male è nei fiori
Un miscuglio di amori e stupori
Di clamori e dolori, di pallori ed horrori
I fiori del male che non ti dispiace
I fiori del male che non ti dà pace
Porti fiori
secchi sulla tomba
Porti fiori
secchi perché hai perso la trebisonda
Fiori
secchi, brutti e avvizziti
Fiori
fioriti, vissuti e abbandonati
Grazie per i fiori
Grazie per i fiori
Grazie per i fiori
Grazie per i fiorini
Quelli sempre a caccia di quattrini
Quelli che li hanno, sì, graditi
Sono poi quelli che li hanno traditi
Il male è nei fiori
Il male è nei fiori
Crepuscolo
di superiori ed inferiori
Crepuscolo
di sconfitti guerrieri
Trasognando
un musicale ieri
Grazie per
i fiori…
Dicembre 2025
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