Diario d’autore (26): note
random su strane omonimie; poesie estive e IA; M. Marè; A. Ricci; Bob Wilson;
“No Other Land”; ‘Grande Israele’; I. Giovannini; F. Maresco; il ‘mostro’; R.
Capone; L. Pintor; E. Cacciatore; La nuova barbarie; Meloni; P. Bonacelli.
di Marco
Palladini
Aneddoto ► Aneddoto (vero):
l’agente immobiliare che ho incaricato di vendere una casa di famiglia mi
racconta che ‘copre’ per ragioni professionali una vasta zona tra i quartieri
Trieste-Salario e Africano. Ebbene, proprio al quartiere Africano gli capita
dopo molto tempo di andare a prendere un caffè in un bar di Piazza Gimma. Parla
con alcune persone e quindi riconosce (è alquanto ingrassato) il titolare del
bar che si chiama Marco Palladini (sic). Attacca a chiacchierare con lui e gli
confida, vedi i casi della vita, che sta vendendo la casa di un signore che si
chiama pure lui Marco Palladini. Il barista sorride, poi s’incuriosisce e
chiede all’agente che mestiere fa il suo omonimo. L’agente risponde: mi ha
detto che è uno scrittore. Il titolare del bar spalanca gli occhi e si dà uno
schiaffo sulla fronte, esclamando: adesso capisco! L’agente non comprende di
cosa stia parlando, l’altro allora gli spiega: sono anni che ricevo telefonate
da parte di sconosciuti che si complimentano per i miei libri. E io fatico a
fargli capire che non ho mai scritto alcun libro e semplicemente gestisco un
bar. Ecco svelato l’arcano, pensavano che fossi il Palladini scrittore di cui
lei sta vendendo una casa.
L’agente mi riferisce tutto ciò ridendo
e pensando che mi faccia piacere. Cosa che subito gli confermo: certamente, mi
fa davvero molto piacere che abbia dei lettori che apprezzano i miei libri e mi
diverte assai l’equivoco che abbiano comunicato tutto questo a un mio omonimo
che sta dietro il bancone di un bar. È la conferma che i libri una volta che
sono pubblicati e distribuiti vanno per conto loro per il mondo e ‘diventano’
in un certo senso dei loro lettori. Concludo dicendogli che, magari un giorno,
andrò a incontrare questo altro Marco Palladini che ha ricevuto degli
apprezzamenti letterari al mio posto.
Mi ritorna, poi, in mente che quando,
nell’aprile del 2011, venni violentemente tamponato sull’autostrada
L’Aquila-Roma da un giovanotto che guidava una Grande Punto nera, costui, dopo
che apprese qual era il mio nome, mi chiese al telefono se fossi lo scrittore
Marco Palladini, al mio sì, ci tenne a far sapere che aveva letto un mio libro
e gli era piaciuto. Cosa che naturalmente non attenuava l’imprudenza di avere
causato un incidente in cui potevamo morire sia io che lui.
Mi piace ripetere che tutto è a caso nel
caosmo, ma insieme non lo è e riporta il caso a casa, cioè in una dimensione
interindividuale, di sovracoscienza dove le singole traiettorie soggettive
possono incrociarsi nei modi e nelle situazioni più strane e imprevedibili.
L’estate in poesia ► (Post su FB, 4 luglio): un piccolo
esperimento: l’estate ha rappresentato non di rado un motivo ispiratore della
mia scrittura poetica. Recupero qui un paio di esempi: il primo testo fu
pubblicato nel mio libro di esordio Et ego in movimento (1987); il
secondo risale alla mia terza raccolta Ovunque a Novunque (1995).
In coda ho incaricato ChatGpt di fornirmi un testo con
le seguenti indicazioni: sonetto, spirito moderno, tono ironico, stile spoken
poetry. Alla fine, è uscito un testo non spregevole, meglio sicuramente di
tante canzonette di stagione o dei versicoli della poetanza lirica d’abord.
Comunque, chi vuole può leggere e giudicare per conto suo.
XXXI
Mi si addice l’estate
la sua pigrizia
aggressiva
e la caldura che ti
refrigera le idee.
L’estate racchiusa
nel concerto di
canzonette stagionali
che i sociostorici
d’assalto
al primo convegno
vorranno abburattare
quali illuminanti
messaggi epocali.
L’estate che non
contraddice
l’antica mia passione
per i sorpassisti con
lo spider
che la cultura:
ma sai ’ndove me la
metto?
E per i mattatori
accaniti
lungo le piagge del
boom-boom
nel ruolo sciolto del
dragatore ludico
che dopo te lo spiego.
L’estate anonima
che da Alba a Zelda
puoi chiamare
con millanta nomi
femminili.
L’estate che ti
spoglia
e ti rende
insopportabile
l’essere ancor più
simile
ai cosiddetti simili.
L’estate
anti-estetica.
La mia estate
tecoppiana
sotto le stelle col
sacco a pelo
e truce smoccolante:
pozzi n’esce lo fiato
pozzi jettà lo sangue.
Sì ‒ mi si addice
l’estate
che ti dispone e ti
concentra
al duro lavoro su te
medesimo
e quindi ti lascia
andare in vacanza
nell’inane resto
dell’anno.
Extate
Estate. Sciroccosa
tenera sciccosa.
Technicolor da prima
aurora sul mondo.
L’idillio di coppiette
tra ragazzi-vogue
con i ray-ban a
specchio e pulzelle
playmates col body
ultrasgambato.
L’arroganza della
bellezza.
Spericolatissime corse
su quattroruote.
O più sportivamente
sul sellino di nippomoto.
Scenografico lungomare
incasellato
tra alti palmizi e una
teoria
di versicolori
stabilimenti balneari.
Capelli morbidi
scompigliati.
La luna galeotta.
Dichiarazioni
di amour fou
sconfinato. Nel frattempo
parecchio sesso a
go-go.
Neppure l’ombra di
quel lievito d’eros
costretto a dirompere
forzuto gli ostacoli
frapposti dal cogente
assetto familiar-social-
psico-politico.
Contraddizione magna
su cui si basa la
fortuna
di quasi tutta la
letteratura mondiale
da Omero a Liala.
Non può mancare di
contro
il topos di ogni
rispettabile storia rosa:
l’infedeltà.
Frequentazione
intensiva delle discoteche.
L’amica del cuore di
Lei abballando
si prende una furiosa
cotta per Lui.
Fuga romantica dei due
amanti
su un’isoletta
dell’Egeo. Itinerario à la page.
Rotocalchi che
passiòn!
Acuta sindrome da
gelosia
e crollo nervoso da
parte della Lei tradita.
Convalescenza e
guarigione
in meno di una
settimana.
Insurrezione della
carne. Comitive assatanate
che passano da una
festa all’altra
presso megaville da
invadere
anche e soprattutto
quando non si è invitati.
Sbronze storiche. Le
mezzanotti ruggenti.
Il padrone con lo
smoking bianco
che pare un cameriere
scaraventato senza
complimenti nella piscina.
Bullaggini e
corbellerie. Ehi, garçon
un altro daiquiri ben
ghiacciato!
Ritorno di Lui.
Guerriero riposato
e velocemente stufo
dell’ex-amica del cuore
di Lei. Vani tentativi
di riconciliazione.
Lei non vuole saperne.
Lei flirta
con un fustaccio
biondo sulla tolda
di un baglietto.
Dominanza di tinte cilestrine.
Prendono
l’abbronzatura. Integrale
‒ ça va sans dire. Poi
scendono nella cuccetta
e scopano. Lui viene a
conoscenza.
S’incazza di brutto.
Va a cercarla.
Violenta ripulsa.
Porte sbattute.
Inseguimenti. Insulti.
Accuse e controaccuse.
Vetri infranti.
Spiegazioni.
Cuoricini rappezzati.
Tira e molla.
Schiaffi e baci.
Seconda puntata dell’idillio.
Sulla falsariga della
prima.
Love is a many
splendored thing.
Da qui all’eternità.
Da non credersi.
E via col vento.
Sposiamoci. Non so.
Mi pare che tutto
corra così in fretta.
Ora o mai più. Allora?
Ebbene sì. Sì.
Dopo dodici giorni
dodici parte
la richiesta ufficiale
di separazione.
A motivo dell’assoluta
inconciliabilità
tra le parti. Lei non
sa stirare
neppure una camicia!
Lui è un decerebrato
che chiama cultura
fisica
la sua mania della
ginnastica!
Le inesorabili
repliche della vita.
Sorseggiando un
tropical sotto l’ombrellone
Lei getta un’occhiata
distratta
allo spopolato arenile
settembrino.
Non c’è molto di più
di nulla da fare.
Lettura di un
romanzaccio un sacco “meta”.
Titolo: Ballarono
una sola extate.
Posticcio e apposta.
Velo di foschia sulla
linea dell’orizzonte.
Dissolvenza. Fine
assai.
CHATGPT: Estate (parole
sudate)
Estate è un miraggio
che puzza di crema solare
un ventilatore che
gira, gira... ma l’aria non cambia.
È il corpo che dice
basta, ma la città insiste,
è il bar che chiude
tardi, ma il sonno non esiste.
È gente in fila per
l’apericena,
è lo spritz che costa
quanto un pranzo in Lettonia,
è la sabbia che ti
entra dove non dovrebbe,
e la spiaggia,
affollata come il tram delle sette.
È il post su Instagram
col filtro “paradiso”,
ma fuori campo c’è un
urlo e un sorso di compromesso.
È l’amore d’agosto che
dura... fino al Wi-Fi,
e il cuore che ci
spera, anche se poi lo sai.
Però -
c’è quella sera.
Quella brezza.
Quella voce che ride e
ti sfiora.
E allora pensi: ok,
anche stavolta,
l’estate ce la siamo
bevuta. Ma ne è valsa la gola.
Mauro Marè ► Quodlibet, piccola ma altamente
qualitativa casa editrice maceratese, oltre alla saggistica letteraria e
filosofica, da un po’ di tempo, su impulso di Giorgio Agamben, si sta dedicando
alla poesia, recuperando autori o testi per lo più in lingua dialettale,
tralasciati o dimenticati. Così, dopo Pasolini, Zanzotto, Francesco Giusti,
Biagio Marin, Franco Scataglini, Emilio Rentocchini e Amedeo Giacomini, c’è per
me la lieta sorpresa di una antologia di Poesie (2025) di Mauro Marè,
quello che reputo non ‘dopo’ Belli, bensì ‘assieme’ a Belli, il maggiore autore
in assoluto, in lingua romanesca. Il volume contiene i tre ultimi libri
pubblicati da Marè prima della sua precoce dipartita nel 1993 a 58 anni. Sono,
come sottolinea nella sua preziosa prefazione Agamben, le raccolte che segnano
nella produzione del poeta una decisiva ‘svolta’, quella ovvero di sganciarsi
dalla tradizionale gabbia metrica chiusa del sonetto, per navigare nel ‘verso
libero’, adottando moduli anche sperimentali che implementano sia linguisticamente
che concettualmente quella che Marè chiama la “lingua serciosa”. Cioè, la
lingua romana o romanesca percepita come un ‘sercio’ ossia una pietra, con un
palese, anche, richiamo alle “rime petrose” dantesche. Ma la lingua romanesca è
‘serciosa’ perché non è una lingua di conciliazione, di incontro armonico o
lirico con il mondo, al contrario è una lingua di conflitto, irosa, puntuta,
kakohumorale, ma anche iper-sarcastica, acidamente divertita e divertente, corrosivamente
carnascialesca, lingua corporale, di trippe e budella e miasmi materiali e
morali. Agamben cita lo stesso Marè che assevera: “La parola è pietra scagliata
al cielo, non verbo di Dio che pacifica, ma verbo dell’uomo che interroga,
disperata domanda verso le tavole bianche dov’è inciso il silenzio di Dio”.
Marè che conobbi grazie al suo caro amico Mario
Lunetta all’inizio degli anni ’90, mi fece una strana impressione: nella vita
civile era un dovizioso notaio, sempre correttamente ed elegantemente vestito
in giacca e cravatta, un bell’uomo coniugato con l’artista visiva Annamaria
Polidori; nella sua scrittura era invece uno scatenato e assai colto e fin
diabolico ‘jongleur’ della parola poetica che non faceva sconti a nessuno e che
mostrava, dietro la sua facies di distinto borghese, un’anima di fustigatore di
vizi e costumi e stigmi antropologici, ma pure di vorace delibatore di vite
urbane e quotidiane in cui lui si immergeva per il tramite di una lingua bassa,
aggressiva, mordace & merdace, oscena, che non dava requie, ma talora
faceva brillare colori malinconici e acute riflessioni sofopoetiche.
La presente antologia contiene i testi di Sìlabbe e
stelle (1986), Verso novunque (1988) e Controcore (1993), la
raccolta postrema dove si accentua lo sguardo filosofico e dolente e
disincantato verso l’umana eteroclita gens della capitale. Comunque, quello che
fin dal primo incontro mi conquistò subito di Marè è la sua inventività
linguistica, la straordinaria escogitazione di neologismi a go-go, le ‘mots
valise’, i continui rimandi sottotestuali tramite vernacolari sintesi
ultraviolette. Ho sempre pensato che il ‘rommanesco’ (come amo chiamarlo) sia
un dialetto manesco, che picchia duro e poi ti fa l’occhiolino. Il mio invito
è, allora, ad andare a leggere o rileggere i testi di Marè, leggerli o
rileggerli possibilmente ad alta voce, per godere della elettrizzante,
energetica loro musica verbale, della complessa sonorità di un dettato poetico non
di rado spassoso. Mi piace allora proporre qui un testo che è, pure, quasi un
manifesto della sua poetica:
Una linguaccia
Zozza, boja, balorda ’sta linguaccia
romanesca che nun ce pòi fa un volo
più su d’uno starnazzo. È bona solo
a pijà tutto er monno a pesci in faccia.
Ogni parola, un sercio. Cià la fionna
er romanaccio in bocca e pe la rabbia
de secoli passati chiuso in gabbia,
ogni botta una tacchia, tonna tonna.
E dentro ciarisona er travertino
de le colonne, er granito, er basarto
e l’urlacciacci de mazzola e squarto
der tempo der governo papalino.
È una lingua perdìo che taja e cuce,
che strilla, che zagaja e nun s’abbacchia
e che a metteje addosso la mordacchia
nun furno boni né er papa né er duce.
Lingua de stocco, lingua scellerata,
lingua che si per caso t’innammori
te more in petto e nun te sorte fori
artro che un fiotto: vammoriammazzata!
E chiacchiero e me sciacqua in bocca er sasso.
Er verso sputa in faccia a la poesia.
Scrivo pe tigna e pe cojoneria
co la mancina. Co la dritta scasso.
Segnalazioni ► A proposito di poesia in dialetto non
posso non segnalare il magistrale saggio-non saggio La léngua vitorbese (Effigi
Edizioni, 2025) firmato da Antonello Ricci. Un libro davvero straordinario in
cui il viterbese Ricci è riuscito ad accoppiare la sua competenza di studioso,
antropologo culturale, storico locale, dialettologo, linguista, docente, poeta
e quant’altro, con la sua sapienza e lunga esperienza di narratore “di comunità”,
di brillante contastorie. Così, il volume, anche per un soggetto non edotto
nella materia, come il sottoscritto, risulta di piacevolissima lettura,
oltreché di gran profitto, dal momento che si possono imparare tantissime cose
di cui si è beatamente ignoranti. Si tratta sicuramente di un rigoroso saggio,
repleto pure di termini linguistici tecnici (vedi “diastratico” o “ortoepia”,
cercatevi il significato), ma che si fa leggere come un romanzo sulla storia
della lingua o parlata di Viterbo, sui suoi oscillanti rapporti con l’area
dialettale umbro-maremmana e poi con Roma. E, quindi, con un ampio focus sulla
specifica produzione poetico-dialettale “vitorbese” che sembra principiare con
il sonetto Folhore viterbese (1876 circa) di Cesare Pinzi, ma che poi
trova un pieno dispiegamento con la produzione in versi di Enrico Canevari
(1861-1947), di Emilio Maggini (1900-1986) e di Edilio Mecarini (1923-2003).
La léngua vitorbese – libro che si avvale
pure della partecipe prefazione e degli interventi di Marco D’Aureli, ed è
arricchito da numerose illustrazioni e appendici varie, nonché dalla icastica copertina
disegnata da Lorenzo Ricci e da una quarta di copertina di Antonello “Isoglosse
Tuscia viterbese” che è una cartografia poetico-visiva ispirata a una mappa dei
dialetti di Giovan Battista Pellegrini – mi sembra un risultato apicale nella prolifica
ed eclettica produzione critico-letteraria di Ricci. Anche perché in esso vi è
la consapevolezza che in una “léngua” si incarna l’anima di una comunità e
dunque la ricostruzione del suo diacronico percorso è un modo tardo-umanistico
di annodare la tradizione passata e l’identità presente della gens viterbese.
Infine, mi verrebbe da dire che questo volume mi appare
un format, ovvero un modello (sul serio) per unire spessore
analitico-ermeneutico e scientifico con una divulgazione culturale non corriva,
capace di intrattenere il lettore, e dunque lontana dagli accademismi tanto
spesso tediosi e pesanti da digerire. La leggerezza dell’essere della scrittura
pervade questo saggio a cui bisogna rendere merito e lode.
Bob Wilson ► (Post su FB, 31 luglio): Rammento una conferenza stampa, a cui ero presente, di
Carmelo Bene che alla domanda: chi le piace, chi le interessa nel teatro
contemporaneo? Così, replicava: nessuno, esisto soltanto io e... (studiata
pausa) forse Bob Wilson.
Ecco persino un teatrante iperegotico come Bene, alla fine, a
denti stretti doveva ammettere che vi era un altro genio, oltre a lui, nel
teatro di fine Novecento. Bob Wilson, questo genio, se ne è andato oggi. Un
assoluto gigante della scena moderna e postmoderna di cui ho visto tanti
spettacoli, sempre ammaliato dalla sua straordinaria capacità di regista
creatore di immagini e dal suo insuperabile talento nell’uso
visionario-pittorico delle luci teatrali.
Lo voglio ricordare con una nota critica che pubblicai, nel
mio libro del 2009 I Teatronauti del Chaos, su uno dei suoi memorabili
spettacoli:
«Un supremo esempio di tradizione
dell’avanguardia. È questo Doctor Faustus Lights the Lights (1992) del
regista americano Bob Wilson, operante da molto tempo in Europa, dopo essere
stato negli anni ’70 uno dei fondamentali e più influenti innovatori del
linguaggio teatrale. Ormai assurto al rango di maestro della scena
contemporanea, Wilson (classe 1941) ha tramutato la sua indole sperimentale in
grande stile, in forma matura di una vocazione artistica da sempre incline
all’opera totale. È con questo spirito che il regista di Waco (Texas) si
rivolge ad un testo della sua connazionale Gertrude Stein, concepito
originariamente nel 1938 come libretto d’opera. L’omaggio alla maggiore
scrittrice americana d’avanguardia del ’900 vuole, infatti, mettere in evidenza
le radici profonde di un codice espressivo radicalmente anti-naturalista e
tendente allo scarto, alla dissonanza, all’astratto. In tal senso l’abbinamento
Stein-Wilson funziona benissimo. La rielaborazione ironica e un po’ nonsense
del mito di Faust che vende la sua anima a Mefisto per poter scoprire la luce
elettrica e che, alla fine, insoddisfatto uccide un ragazzo e un cane per poter
precipitare all’inferno, passa per una partitura verbale fitta di ripetizioni,
allitterazioni, inversioni semantiche, incastri di giochi di parole al limite
dell’anagramma o della filastrocca. Mirabilmente calcolata e soppesata la
scrittura diviene partitura fonetica e sonora, già postmoderna Gertrude Stein
risolve la narrazione in pura decostruzione.
Questo stimolante materiale testuale fornisce il
destro a Wilson di inventare una partitura scenica globale in cui luce, gesto,
architettura dello spazio, movimento, musica, canto, recitazione moltiplicano
ed esaltano, per speciale affinità estetica, il senso di sperdimento umoristico
di Faust, l’abbassamento della tragedia verso la parodia realizzato dalla
Stein. Alla resa dei conti Doctor Faustus Lights the Lights, prodotto
dall’Hebbel Theater di Berlino, è una sorta di musical d’avanguardia,
ammiccante e sofisticato assieme, sorretto dalle composizioni di Hans Peter
Khun che alternano spunti seriali, melodie pianistiche, brani cabarettistici, e
dalle coreografie di Suzushi Hanayagi che richiamano l’eleganza di Balanchine.
Ma la bellezza dell’allestimento deriva essenzialmente dal freddo metodo
compositivo di Wilson che crea squisiti quadri visivi con portali di luce, neon
che salgono e scendono, contrastati controluce in bianco e nero, fondali a
tinte pastello di grande purezza, un praticabile sospeso e variamente inclinabile,
geometriche linee luminose multicolori che isolano o disegnano sempre diverse
porzioni spaziali. Ad abitare dinamicamente la scena entrano personaggi che si
scindono e si contrappuntano in più figure tra passi di danza e gestualità
neurotiche. Così, se Mefisto si sdoppia nel diavolo in rosso e nel diavolo in
nero, di contro circolano tre Dottor Faust, uno dei quali per ringiovanire si
toglie la giacca restando a torso nudo; così, girano pure tre Margherite che
sono anche “Ida, Helena e Annabel” e fanno coppia con un ragazzo spilungone e
un’attrice zompettante che incarna un cane che ripete sempre “grazie!”, e ci
sono ancora un certo Mr. Viper che muove un burattino e una Contadina che
giganteggia sui trampoli rivestita di bianco e che manovra una lucida falce
come una clownesca Sorella Morte.
La calibratissima macchina scenica di Wilson,
disposta su più piani di profondità, crea un’identità strutturale con la
scrittura cubista della Stein e traduce il suo funambolismo dalle parti di una
sublimata astrazione. Pur se l’artista texano non perde mai il senso del teatro
orchestrando e mescolando il rimbalzo delle parole, il diavolo che sbatte e
inciampa ad ogni uscita, le lampade che calano citando Edison, un suo
spettacolo del ’79, la colonna rumoristica di colpi e vetri infranti che funge
da eco istantaneo delle mosse degli interpreti. I quali sono tutti giovanissimi
attori di una scuola dell’ex-Berlino Est e si prestano con grande spirito di
abnegazione a recitare in un inglese alquanto gutturale e ad eseguire con
totale e ammirevole dedizione il complesso e pluriforme tracciato scenico
ideato dal maestro statunitense».
“No Other Land” ► Ho visto con (colpevole) grande ritardo No Other Land
(2024), un vivido e doloroso docu-movie firmato da un quartetto
palestinese-israeliano: Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor, Hamdan Ballal.
Il film realizzato tra il 2019 e il 2023 documenta, appunto, le operazioni di
sgombero di una ventina di villaggi palestinesi nella zona di Masafer Yatta, da
parte dell’esercito israeliano con blindati e bulldozer che demoliscono
sistematicamente case, pollai, scuole, aree giochi, etc. col pretesto di creare
un’area di esercitazioni dell’Idf, in realtà per favorire l’arrivo di nuovi
coloni israeliani che si presentano, protetti dai soldati e pure loro armati, e
sparano senza problemi contro la gente locale. No Other Land mostra al
contempo la paziente, accanita resistenza delle famiglie e degli attivisti
palestinesi, che oppongono i loro corpi e organizzano cortei e manifestazioni,
contro questo sopruso colonialista e criminale in un territorio che sta in
Cisgiordania (la cosiddetta West Bank) e ricade sotto il governatorato di
Hebron. I palestinesi sottolineano che le loro famiglie abitano in quella terra
dagli inizi dell’Ottocento, ma i funzionari e i militari israeliani neppure gli
rispondono, una bionda soldatessa dice loro con sguardo arcigno: fateci fare il
nostro lavoro. Sì, uno sporco lavoro, ma tanto i palestinesi non hanno alcun
diritto, se non quello, secondo le autorità e la Corte Suprema di Israele, di
piegare la testa e andarsene.
I protagonisti del film
sono il palestinese Basel Adra e l’israeliano Yuval Abraham, giovani
giornalisti che cercano con riprese video e articoli pubblicati in rete di far
conoscere la situazione e aiutare la resistenza delle famiglie locali ridotte ad
abitare in grotte. I due sembrerebbero, anche
somaticamente, intercambiabili, ma non è così. Basel vive lì, a Masafer Yatta,
con i suoi famigli, il padre, tenace attivista, è stato più volte arrestato e
lui deve sostenere i consanguinei, sostituendolo alla pompa di benzina. Pur
laureato in giurisprudenza Basel non ha prospettive, vorrebbe forse andarsene,
ma non può uscire dalla Cisgiordania, è sempre più stanco e deluso, ma ha
introiettato lo spirito di resilienza palestinese e dice all’altro che bisogna
tenere duro, avere pazienza. Yuval, l’amico ebreo, può invece andare e tornare
quando vuole, lui che vive a Be’er Sheva, ha più fretta, vorrebbe risolvere la
faccenda più rapidamente, giudica criminale la politica del suo paese e la
denuncia, così in televisione i rappresentanti della destra sionista lo
accusano di essere un ebreo che è contro gli ebrei. Alla fine, forse, pure lui
condivide il senso di impotenza e di frustrazione dei palestinesi espulsi da
Masafer Yatta, mentre crescono le macerie dovute alle implacabili demolizioni
degli edifici locali. Il documentario fa vedere senza filtri il giovane Harun
Abu Aram che cerca di difendere il generatore elettrico della sua famiglia e
viene ferito gravemente da un soldato dell’Idf e resta tetraplegico e poi dopo
qualche anno muore. Così, pure vediamo, qualche giorno dopo l’assalto di Hamas
del 7 ottobre 2023, un controassalto a Masafer Yatta di coloni ebrei armati che
feriscono con un colpo al petto Zakriha Adra, un cugino di Basel, mentre in
coda sempre più famiglie con auto, pick-up, van e carrelli ricolmi di
masserizie abbandonano i villaggi. Il colonialismo sionista avanza senza
tregua, come in una Nakba infinita.
Ecco, si esce dalla
visione di No Other Land con un senso di amarezza e di profonda
ingiustizia. La sproporzione tra i brutali atti di forza dello stato israeliano
e la disperata resistenza delle genti palestinesi, uomini, donne e bambini, che
chiedono soltanto di poter vivere una vita normale, è macroscopica. Già molto
prima del 7 ottobre e della mattanza genocidaria di Gaza. E debbo dire che di
fronte a tale sproporzione, al senso di disperazione ed esasperazione e umiliazione
che ne deriva, è difficile non capire la decisione di una parte degli uomini di
Palestina di aderire ad Hamas e rispondere al terrorismo israeliano con un
controterrorismo. La guerra, da qualsiasi fronte la si faccia, è un orrore e
una merda, ma anche vivere una vita sempre schiacciati, conculcati di minimi
diritti, strappati via dalla propria terra, denegati nella propria identità e
nelle proprie radici, è una condizione orribile e, alla lunga, insostenibile…
‘Grande Israele’ ► (Post su FB, 21 agosto) Intervistato sul
‘manifesto’ il regista iracheno, ma abitante in Cisgiordania, Abbas Fahdel ha
precisato: “Israele è una colonia creata per decisione dell'impero britannico e
divenuta uno stato dopo la guerra e l’olocausto su decisione delle
potenze europee. È la loro colonia, ci sono molti europei o americani che
sono i più fanatici, in Cisgiordania i coloni americani sono terribili, il loro
razzismo si rivolge verso chiunque non ha la loro stessa religione o colore
della pelle, gli ebrei orientali o laici vengono condannati. Sono peggio dei
fascisti, mi fanno pensare a una versione ebraica dell’Isis, vogliono annettere
Gaza e la Cisgiordania, e Netanyahu e i suoi ministri seguono la stessa linea,
pensando di estendersi sino alla Siria, all’Iraq e forse a parte dell’Egitto”.
Il piano della Grande Israele è chiaro
e, ormai, il dado è tratto, non si fermeranno, con la copertura di tutto
l’occidente, a parte qualche ipocrita dichiarazione. Il peggio deve arrivare...
augh
Per Imma
Giovannini ► (Post su FB, 29 agosto): Mi ha raggiunto stamane la notizia del decesso di Imma Giovannini, malata
da tempo. Notizia che mi addolora molto, pur se la conoscevo da non più di una
decina di anni. Imma piena di energia e di spirito, come dire, impresariale,
nonostante la sue non buone condizioni di salute, mi aveva più volte coinvolto
in eventi performativi concernenti i testi letterari-teatrali di Luigi Rigoni
(1965-2017), bravissimo attore mio amico, e di cui lei è stata compagna e,
vorrei dire, quasi angelo custode pur nella inclinazione autodistruttiva di
Luigi. Imma, unitamente a Sergio Bevilacqua, intellettuale, saggista e editore,
mi aveva coinvolto pure nella pubblicazione di due libri postumi di Rigoni: il
testo vertiginosamente sofo-poetico Il poema di As e, poi, soprattutto
la Antologia Rigoniana (IBUC, 2024), che includeva interventi saggistici
di Pippo Di Marca, Gino Scartaghiande e del sottoscritto.
Fervida ‘anima’
amicale e organizzatrice di tutto ciò, nonostante le declinanti condizioni sanitarie,
Imma così ha sigillato il suo immenso dono d’amore per Luigi, facendo conoscere
una gran parte dell’eredità poetica e drammaturgica di Rigoni, che lui aveva
tenuto nascosta per l’intera sua vita. Adesso si ritroveranno da qualche parte.
Inviando un pensiero di affetto e di ammirazione a Imma (ho conosciuto poche
donne che si sono così tanto spese per la memoria dell’uomo e dell’artista
amato) ripubblico la poesia che dedicai a Rigoni, poco dopo la sua morte
(aprile 2018), allargando la dedica stavolta anche a Imma:
Missiva postuma a
Luigi
Che Carmelo, il Bene
del nuovo teatro
potesse diventare il
tuo male
te lo dissi molti anni
or sono,
la prima volta che ti
vidi in scena.
“Sii te stesso, Luigi
Rigoni e basta”
dichiarai secco e tu
guardavi in tralìce,
sembravi un poco o
tanto infastidito.
Poi la tua devota
maniera ‘filocarmelitana’
crescendo e maturando
si dissolse
e l’attore Rigoni
apparve in tutta
la sua potente misura
che era una dismisura
per impeto ed ironica
iattanza
per sicurezza e
massiccia presenza
per vis recitativa e
voce espansa.
Dopo un po’ però ti
persi di vista,
nella declinante
sperimentazione capitolina
erratico e
lampeggiante il tuo percorso
mi pareva una epifania
scaturita
da un voler restare
nascosto ed imprendibile,
mentre forse era
soltanto la dannazione
di un mal di vivere
che non trovava requie
se non in un
tormentoso stato alcolico.
Il battello ebbro del
tuo teatro
fece ad un certo punto
naufragio e seppi di te
per brutte vicende e
tristi epiloghi in prigione
e ad Aversa in
manicomio giudiziario.
Di fatto calò per me
il sipario su di te,
persino la tua precoce
morte a soli 51 anni
mi sono perso e forse
è stato meglio così,
la luttuosa notizia mi
avrebbe amareggiato
e fatto pensare al tuo
fulgido talento di attore
sprecato, gettato in
più di un senso alle ortiche.
Ma, capisco, ciascuno
ha il suo karma
e tu di certo non eri
un ragioniere o un lecchino,
bensì un artista per
passione e dissipazione
al pari di Vittorio
Vitolo alias Victor Cavallo
che ammiravi credo
pure per il suo impavido
affacciarsi
sull’abisso, avendo l’abisso dentro di sé.
Parce sepulto e io
rivedo la tua aperta faccia sgherra
che attraversa con
noncuranza un tempo memoriale
in questa mia piccola
missiva postuma e irrituale.
Sberleffo ► (Post su FB, 8 agosto): Nell’ultima (per me
imperdibile) pellicola di metacinema di Franco Maresco Un film fatto per
Bene, tra mille altre cose e immagini, c’è una scena memorabile ed
esilarante che è la parodia di una scena del bergmaniano Settimo sigillo.
Antonio Rezza col costume-maschera della morte si
trascina appresso San Giuseppe Desa da Copertino, il santo che volava, su cui
Carmelo Bene scrisse una sceneggiatura purtroppo mai convertita in pellicola.
Rezza conduce questo santo mezzo scimunito, che sembra uscito da “Cinico Tv”,
davanti a una scacchiera posta su un tavolo e gli dice con la sua voce
chioccia: gioca, se vinci continui a vivere, se perdi muori, se fai patta ti
ammazzo perché il pareggio non serve a niente. Quindi aspetta che il santo faccia
la prima mossa. Taglio di montaggio: vediamo Rezza con l’aria annoiata, per non
dire scoglionata, che ancora attende dopo lungo tempo la mossa dell’altro.
Quindi gli fa: Peppino, ma tu hai mai giocato a scacchi? E l’altro replica
secco: no!
Ecco come sbaragliare la morte (e il cinema di
Bergman) con uno sberleffo!
Mostro! ► Nel
libro di Antonio
Attisani e Lea Melandri La vita impresentabile (Edizioni Cronopio,
2024), mi colpisce leggere
(pag. 96) in riferimento all’Unico di Max Stirner, questa frase di Attisani:
“... allora può iniziare il cammino dell’unicum, ovvero quel divenire
mostro, o mostro in divenire, un cammino che ineluttabilmente si compie nella
storia di oggi e nell’anagrafe”. Perché mi ha richiamato un testo poetico
scritto quasi 40 anni fa (giugno 1987, poi pubblicato nel volume Ovunque a
Novunque, 1995) e che avevo dedicato alla compagnia teatrale Magazzini di
Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo, che evocava in limine
proprio la figura del ‘mostro’ assieme creatura orribile e essere prodigioso.
Ecco la poesia:
Tournée del non ritorno
Blu inconscio e ronDo di petto e cavatine
più frilli poi che trilli
i cavaossa gli strappapelle
in morte di Francesco a concludere convennero
un tal splenetico show
itifallica operazione Alcantara
ovvero saggio indexicale del
solo bieco
punto di rottura
Rinzaffi di action painting se è
vero sangue
non è cruauté un rapporto confidenziale
forse ohccaso! di macelli
cavalli camalli fondelli
ohsfracelli! andremo al massacro
per delle bagattelle ille dixit
Genet a Tangeri come Rimbaud in Abissinia
e Tagore al mare sul battello
d’oro ins null
cumparsita scirocco e quanti gli autocompianti!
Eppur livido di pensieri nascosti Federico espone
il ritratto dell’attore da giovane
l’uomo senza volontà fallisce il blitz
del sotterfugio
sgommando sulla strada a commando
il fotofobico bislacco deflora le notti
senza fine
fiuta coca ricercando l’Apeiron
la festa
o pentecoste del decennale smarrito
Ancora cavalli matti e ratti paranoici
rose tea sacrificate a lo spirito
del giardino delle erbacce offa straniera numero 39
nel cronicario dei falsi addii
sul carrozzone del non ritorno
bucranio in mano
e amletizzando fanno la vita
propria a pezzi i pazzi
nervous
breakdown he collapsed in the corner
un bel crollo nervoso da moviolare
per poi fare il dolce niente
balbutire al con tactus
e nientare il fare dolce
Le molli natiche e gli infami destini
di chi rompe il riserbo come è di chi attacita
la dissidenza con il pudore ci
irrorano
le zone calde erogene di
body-stars già frigide
e per il coitus laggiù a Soho dimolto scàciual
soddisfatti naturalmente o rimborsati
i portatori di peste filo e vetero freudiani
sul campo verranno sbaragliati
dai nuovi agenti dell’aidiesse
La mucida lamia incontra Sandro la donna stanca
incontra il sole nell’ombra diurna
si trama la presa in giro e poi
il vero e proprio raggiro di tra
una spocchiosa luna
e le giaculatorie del dilucolo
c’è il tempo
di meditare su una Epochè da farsa
viaggio e morte
per acqua scura inseminando senza fare
chiarezza
oggi un amore sahariano domani
un odio maghrebino
i presagi del vampiro sono la più pura attuale
postfezia scientifica
Con toilette camp da matrona
della suburra
Marion offriva il suo seno rubedo alla passione ctonia
al miracolo della neve opponeva la banalità
di un’ejaculazione albedo sono
una tigre di carta
sclamava una pantera di
plastica un puma di paillettes
xantosi fortore di mia natura animaiala
tel quel malfida creola con espadrillas
che fa violenza alla violenza
giustizia la giustizia
rivolta la rivolta languidamante
surprofilata
contro vedute di Porto Said già totem di Mariposa
e idolo nigredo dei lavatoi
contumaciali
lei nel meriggio si vende e
spaccia
la mitografia della propria autocancellazione
Hondivaghi notturni e nuovi futuristi
(they eat
plumcake) taglieggiano il
fededegno Ebdomero
la crisi della metafisica è vezzo o vizio?
la bustrofedica scrittura del liberostilista
bifferà davvero la vita immaginaria
di Paolo Uccello?
domani tanto gli anarcoscribi faranno pippa
saranno i postbruciati i buoni
soltanto
a infinitamente carbonizzarsi
Guevara Fidel suonato al massimo volume
l’urlo sale e criminale dei rockbusters
last concert polaroid per photoseriali ganzette
slurpeggianti
chi fruga-fruga chi
caccia-caccia nel café elektric
(these girls are easy meat)
i magazzinali delloscenotribadismo celebrano
la Soror Mystica e lo Zoon Politikon
bombardando il quartier generale sandinista
l’impegnativa autoconfessione:
fuori forse non sembra
ma dentro vi assicuro io sono un (il) Mostro!
Remo Capone: una
turgida fedeltà poetica a se stesso ► Se
ne andava lo scorso anno novantenne Remo Capone, fotografo e autore letterario
di significativo talento che mi fece conoscere Carlo Bordini, suo fraterno
amico e sodale fin dalla (loro) giovinezza. Per ricordarlo sono andato a
rileggermi la raccolta della sua non copiosa produzione poetica, di cui mi
aveva colpito il titolo generale: Nel corso del tempo. Titolo
letteralmente ‘rubato’ a un famoso ‘cult movie’ del primo Wim Wenders (Im
Lauf der Zeit, 1976). In quella pellicola ‘on the road’ (terzo capitolo
della “trilogia della strada” del regista tedesco) già si preconizzava, tra
molte cose, e con decenni di anticipo, la malinconica chiusura dei cinemini di
paese e di provincia, vista da uno dei due protagonisti, Bruno ‘King of the
Road’, di mestiere riparatore di proiettori cinematografici. In un certo senso
Wenders dava, con un quarto di secolo di anticipo, il suo addio a un Novecento
cine-mitopoietico che si eclissava, mentre già si annunciava un tecno-futuro
che il regista avrebbe, poi, tematizzato nel film Fino alla fine del mondo
(1991).
Ecco Remo Capone sembra svolgere il
tema dello scorrere del tempo e del congedo verso il passato attraverso un
percorso poetico in cui s’intrecciano il filone amoroso, quello amicale e
quello legato al suo sguardo sul paesaggio e sulla natura che fa palesemente
pendant con la sua opera fotografica incantata, sospesa, tra scorci e panorami,
dettagli e orizzonti, vedute insolite e tracce enigmatiche, che a me rammenta
assai l’arte di Luigi Ghirri, anche per la comune attitudine a sfornare foto in
cui la figura umana non c’è quasi mai e, quando compare, è sullo sfondo,
minuscola, il particolare di una scena, mai protagonista, mai in primo piano.
Lo svolgersi del filo temporale
s’interfaccia ovviamente con la grana dei ricordi, particolarmente vividi
quando evocano i corpi delle donne amate, di cui apprendiamo via via i nomi:
Miriam, Nicoletta, Aurora, Carla, Piera. «tu / incerta / nascondi le mie parole
/ in un posto segreto / dove decidi di non guardare». Ma il gioco amoroso nella
memoria di Capone ha sempre un punto di caduta terminale: «Dicevi / che mai /
eri stata così bene / distesa sulla sabbia / al sole / come accanto a me //
dirai queste cose a un altro? // E / se non le dirai / perché / vuoi stare /
male?»; «… I tuoi occhi smarriti / ti guardano / guardano il mio
grido // dall’orlo del pozzo / i tuoi occhi smarriti / ma il grido / non ti
raggiunge / precipita / insieme con me». Questa trama di sguardi e di
autosguardi che si smarriscono e quindi si perdono definitivamente mi sembra il
precipuo ‘sentiment’ della poesia di Capone, nel cui guardare fotografico
trabalzano occhi e bocche, cieli e capelli, membra e prati, braccia e ruscelli,
seni e stelle, vento e pelle, nuvole e schiene, muscoli e uccelli. Che poi
tutte le sagome dei soggetti amati si trasfigurano ossimoricamente in una
«ignota conosciuta… Sei tu conosciuta ignota / che ritorna o arriva / che mi
porge / a sconfinati sognati orizzonti». La conosciuta che si ignora o la
ignota che si conosce è come l’arché dell’amore sognato o da sognare, quel
trasporto che ogni volta riscopriamo e ci sorprende anche quando pensiamo di
saperne ogni piega, ogni pensiero nascosto.
Nel poetare di Capone si coglie una
forte linea di continuità con la sua giovinezza, mi sembra di poter dire che
l’impronta del suo sguardo dai venti agli ottant’anni non sia di fatto mutata.
Così pure la sua scrittura non muta ‘nel corso del tempo’: è sin dall’inizio
una scrittura trasparente, lineare, mai ermetica, semplice senza essere
semplicistica, aliena da qualsivoglia barocchismo o sperimentalismo, ma pure da
un lirismo aulico o enfatico. La lingua di Capone è una lingua piana,
controllata, direi autocentrata, con una evidente intonazione prosastica. E
infatti i punti alti della sua poesia si rinvengono, secondo me, nei testi di
spiccato andamento narrativo, nello slancio del prosimetro.
Penso, in particolare, a una
composizione come “Ricordo” che è pressoché un racconto di educazione alla vita
di un fanciullo sulle piste di un «uomo burbero e sornione (e dolce)», un uomo
che gli insegnava a cacciare e a pescare, «… poi, la notte sul piazzale / della
piccola stazione, / lo sentivo parlare / insieme con gli altri / mentre io
quasi dormivo; / mi sembrava parlassero / al cielo buio pieno di stelle / alla
notte stessa / che risuonava tutta / delle loro voci / come fosse / una casa
immensa». Qui sembra di ravvisare il senso di felicità di una età fanciulla, ma
anche la sua fuggevolezza, momenti e attimi di pienezza che rapidamente
svaniscono e declinano in un malinconico finale: «Sento che anche il fiume, /
la stazione, i grilli / si perdono a poco a poco / e insieme si allontanano /
con l’uomo burbero e dolce / e sornione; spariranno insieme, / per sempre».
Una analoga memoria diegetica è
dedicata alla cugina “Luigina” richiamata in un testo del 2008, presumibilmente
dopo la sua scomparsa, nella epifania dei suoi splendenti diciannove anni: «…
arrivasti dalla città distrutta: / piena di sfolgorante bellezza / occhi verdi
avevi / capelli lunghi, castani / corpo snello e magro / gambe veloci / loquela
vivace / entusiasmo e forza / sorriso che coinvolgeva». Lo sguardo del bambino
innamorato dura e perdura anche nell’animo dell’uomo anziano che rammemora:
«Ciao bella fanciulla / sei stata / per tutti quelli / che conosciuta t’hanno /
una sorta di forza vitale / scaturita dal mare e dalla terra».
Capone mi sembra avere serbato fortemente e gelosamente, nell’arco
delle nove decadi della sua lunga vita terrena, quello sguardo bambino
innamorato sul mondo e sulle persone care. Così il suo circoscritto poetare
appare, in primo luogo, un turgido attestato di fedeltà a se stesso, ai moventi
e agli affetti basici che hanno guidato il suo molteplice operare tra
fotografia e letteratura. Tanto più ciò si dimostra nel lungo, bellissimo
racconto in versi dedicato all’amico, credo fondamentale della sua vita, il
poeta Carlo Bordini. Remo, nel luglio 2021, otto mesi dopo la dipartita di
Carlo, gli indirizza un epicedio narrativo appassionato e fraterno, ma ricco
pure, oltre alla citazione di varie occasioni di collaborazione, di aneddoti
divertenti, di passaggi umoristici, di distonie spiazzanti: «Perché con Carlo
era così: spesso il paradosso surreale e/o scherzoso / si nascondeva sotto una
maschera di serietà, che in seguito / mi venne abbastanza facile decifrare, /
ma che all’inizio / mi lasciava sempre col dubbio: stava scherzando o era
serio?». Il rapporto tra i due lievita anche su una comune, ma non collimante
adesione al comunismo; così cogliendo lo spunto dall’essere stato incluso in
subordine alle carte di Bordini nel Fondo Fortini, Capone sottolinea: «sto
insieme al mio amico carissimo / al mio fratello più grande e anche più
piccolo. / Parleremo di politica / lui sosterrà di essere un pessimista / e che
non vede più alcuna speranza / per sapiens, sapiens / io che invece non è vero
/ si tratta del suo solito modo di mascherare col paradosso / il suo vero
pensiero».
Tale resilienza e renitenza di Capone a
una visione pessimistica e sconsolata, per non dire nichilistica rispetto al
mondo odierno, mi ha fatto tornare in mente i non pochi suoi interventi di
taglio sociopolitico pubblicati sulla rivista L’Age d’Or, da me diretta.
Scritti pugnaci, mai ripiegati su se stessi, sempre acutamente critici e
interrogativi sia che trattasse del possibile collasso ecologico del pianeta,
sia delle rinnovate minacce di guerra nucleare, sia delle problematiche
derivanti dai cambiamenti indotti dalla tecnologia e dalla intelligenza
artificiale. Nonostante la sua età avanzata era sempre sul pezzo Remo, non
demordeva e questo spirito di intellettuale militante lo ritrovo in pieno in
questi versi: «Come posso / architettare poesia / da solo / ora che ci siete
anche voi / e abbandonarvi / per tornare a esser felice / se ci siete anche voi
/ che volete esserlo / ma / come posso dire di no / alla vostra illusione /
soltanto posso / lucidamente decidere / di rinunciare da solo / e / tutto questo
/ aiutarvi a capire».
Come sapeva il conte Giacomo Leopardi
bisogna realizzare “la strage delle illusioni” per forgiare una vera poesia
pensante o un vero pensiero poetico. Ecco, in questa direzione Capone ha
provato sino all’ultimo a fare la sua parte, abbandonando le illusioni
collettive e cercando di aiutare gli altri a capire, a ‘intus-legere’. Per,
poi, forse un giorno ritrovare la felicità.
Futuro
senza futuro ► (Post su FB, 20 settembre): «L’odio si sommerà
all’odio e devasterà gli animi più che le armi i corpi. Che futuro è? Un futuro
senza futuro. Il terrore e la guerra non più come escrescenza ma come
normalità».
Sono parole che Luigi Pintor scrisse sul ‘manifesto’ il 10 ottobre 2001,
subito dopo l’inizio dei bombardamenti in Afghanistan da parte di Usa e Gran
Bretagna come risposta all’abbattimento delle Twin Towers.
Puntualizzava anche Pintor: «questo scenario di guerra asimmetrica potrà
durare quarant’anni come la guerra fredda. Non è un progetto ma un meccanismo
in atto».
Considerazioni involontariamente (o forse volontariamente) profetiche che
risuonano lucidamente esatte nel futuro senza futuro che stiamo ora vivendo.
Un meccanismo in atto che, personalmente, non vedo chi (e come) lo possa
fermare... augh
I poteri
di Edoardo Cacciatore ► (Post su FB, 22 settembre) Recupero due testi, che mi risuonano al
presente, dal libro Tutti i poteri (1969) di Edoardo Cacciatore. Per
diversi suoi ammiratori (quorum ego, ma non per lui) il suo libro poetico
migliore.
Presentimento secondo - IL GIUOCO SI
SCATENA
I
Furia e fretta ha la
guerra ma poi non è rapida
Quarti d’ora ha eterni
e fa che si accomuni
Dente ad unghia mentre
navi in convoglio incensa
Tanfate d’odio unendo
a inodori digiuni
Fila sì la pace a
piene mani dilapida.
Frane di bigio un
polverone è l’epopea
Scorie celando e
olande di monotonia
Dove latta di scatole
squarciò l’immensa
Cavia all’inedia - la
pace lei incombe e avvìa
Nuovi lutti all’evo ma
quanti alibi crea.
Bunker non è il
rifugio o belvedere a busti
Tra ippografi - in
crocchi urbani anzi t’impicci
Con popolo che a
spostare scandali pensa.
Scatenati si sono dai
loro feticci
Scosso è il fuso
orario e le lancette raggiusti.
Presentimento terzo - LA SORPRESA SENZA
FINE
VIII
Tra schiavo e schiavo
non sta più una luna sfatta
Veronica bifronte su
bonacce infide
Batte a gong
un’inflessione in estrema ratio
Contraffà osanna e
belve frusta è che recide
Foschia in trecce e lo
iato in realtà riscatta.
Milioni e milioni di
semplici siamo
Taglio fu prima poi
sutura del potere
Trapezio poi non
antropocentrico spazio
Quante mattine sorsero
e parvero sere?
Lumi ebbe il mondo e
l’homuncio parve più gramo.
Persino il ferro
spinato però non dura
Finirà la guerra è
finita e grida Pace
Sequestro è sì la vita
ma va giù lo strazio
Pregio sempre ha di
meno e chi più si compiace
Di dire all’uomo Soffri
mostro di natura.
La nuova
barbarie del XXI secolo ► (Post su FB, 29 settembre) A chi continua ad
asseverare che dirsi antisionisti equivale ad essere antisemiti, consiglio la
lettura delle dichiarazioni di Gideon Levy, importante giornalista israeliano
intervistato da Chiara Cruciati sul ‘manifesto’:
“Dall’inizio del sionismo gli israeliani non hanno mai visto i palestinesi
come esseri umani uguali, ma come esseri da rimpiazzare. Nei primi anni Venti i
pionieri parlavano apertamente di conquista del lavoro, ovvero di sottrarlo ai
palestinesi. La disumanizzazione esiste da decenni. Il 7 ottobre ha solo reso
tutto più intenso e Israele è uscito allo scoperto. La maggior parte della
società pensa che Israele abbia il diritto di fare ciò che vuole e che non ci
siano palestinesi innocenti. Sente di avere il diritto di compiere un genocidio
e una pulizia etnica.
(...) C’è una opposizione dentro Israele, ma è legata agli ostaggi e alla
sostituzione di Netanyahu, non al genocidio. Il paese è molto più unito di
quanto appaia in superficie: quando si arriva alle questioni chiave, si vede
quanto consenso oggi abbia l’ultradestra e quanto il 7 ottobre sia percepito
come un’opportunità da sfruttare. Non significa che tutti gli israeliani siano
dei pazzi fascisti, ma che la maggioranza prova un’indifferenza malata per
quanto accade a Gaza.
(...) Israele va sempre più verso posizioni fondamentaliste e razziste...
ciò che mi preoccupa di più è la maggioranza che si incammina verso il buio.
(...) L’occupazione cambia faccia di continuo e oggi vediamo la sua fase
più barbara: ora è genocidio. In Cisgiordania diventa più terribile ogni giorno
di più, i pogrom dei coloni sono quotidiani. Ogni occupazione diventa peggiore
con il tempo. È un circolo: l’occupazione genera resistenza, la resistenza
rende l'occupazione più crudele, la resistenza diventa più crudele.
(...) il piano è chiaro: spingere la popolazione in campi di concentramento
a sud e poi ‘offrirgli’ la scelta, stare in gabbia o lasciare Gaza. È pulizia
etnica. Allo stesso modo le uccisioni di massa, la sistematica distruzione, la
cancellazione di interi quartieri servono a rendere quella terra invivibile. Il
governo dimostra nelle azioni e nelle dichiarazioni che sta commettendo un
genocidio pianificato”.
Levy ci dice che non tutti gli israeliani sono “dei pazzi fascisti”, epperò
che la grande maggioranza dei suoi connazionali sia indifferente o dia il suo
consenso al governo fascio-sionista e alle sue politiche di sterminio, chiama a
una responsabilità storico-politica collettiva, non meno pesante di quella del
popolo tedesco sotto il nazismo o del popolo italiano sotto il fascismo. Altro
che antisemitismo.
È la nuova barbarie del XXI secolo che avanza... augh
Innegabile ► (Post su FB, 6 ottobre) Non sarà ozioso
osservare che la comunità di origine (fascista) a cui sempre si appella la
premier Meloni con i suoi camerati, è sempre stata storicamente e fieramente
antisemita, in obbedienza allo spirito delle leggi razziali emanate nel 1938
dal ‘kuce’ (Gadda dixit) Benito Mussolini. Ora i membri di codesta comunità,
ritornata al potere, hanno fatto una capriola di 180 gradi, attaccando i buoi
(cioè il popolo bue che la vota) dove il padrone Trump vuole e diventando degli
ultrà filosionisti.
Ma un filo nero continua a sussistere: erano negazionisti prima davanti ai
campi di sterminio nazisti, sono negazionisti oggi davanti al genocidio del
popolo palestinese a Gaza.
L'unica cosa innegabile è che sono sempre dalla parte sbagliata della
historia...
Paolo Bonacelli R.I.P. ► (Post su FB, 9 ottobre)
Se ne è andato a 88 anni
Paolo Bonacelli, un attore di teatro (soprattutto), ma anche di cinema davvero
grande, intelligente e colto come pochi. Paolo era anche una persona amica e lo
voglio ricordare attraverso una recensione che pubblicai nel libro Prove
Aperte - vol. II (2017):
Paolo Bonacelli / Victor. I bambini al potere – (2006)
I primattori in Italia
sono quasi tutti seriosi, impettiti, non di rado boriosi e compresi di sé. Uno
come Gassman, per esempio, anche quando negli ultimi anni tentava di
auto-sputtanarsi, di auto-demolire il proprio mito, lo faceva con un eccesso di
autorevolezza, con un accanimento animoso che finiva per corroborare il proprio
ipertrofico narcisismo. Per questo vado ogni volta con grande piacere a vedere
e rivedere uno come Paolo Bonacelli, un primattore che è, in fondo, sempre
rimasto un outsider, un bravissimo battitore libero, sempre pronto a smarcarsi,
a non farsi ingabbiare, un fuoriclasse nel senso di inclassificabile, capace di
fare qualsiasi cosa dal leggero al drammatico al grottesco, sempre con un’aria
ironica e sorniona, dove il cinismo romano sconfina quasi in un understatement anglosassone.
È pertanto una delizia
godersi il 67enne Bonacelli calarsi, vestito da marinaretto, nei panni di
Victor, l’impudente e irridente bambino-gigante di 9 anni, protagonista
dell’omonima, celebre pièce di Roger Vitrac. Victor. I bambini al potere debuttò
a Parigi nel 1928 con la regia, nientemeno che, di Antonin Artaud. Ed è ormai
reputata un classico dell’avanguardia del primo ’900. Sappiamo, purtroppo, che
nulla invecchia quanto l’avanguardia e il presente allestimento per
l’adattamento e la regia di Mario Missiroli (al Teatro Parioli) lo
conferma: Victor è, oggi, tutt’al più uno
stagionato divertissement, assai depotenziato nella sua carica
eversiva ed anarchica. Vitrac proveniva dal gruppo dei surrealisti (da cui però
era stato cacciato dal capataz Breton), e in questo testo si era industriato a
mettere insieme gli umori sfrenatamente parodistici di Alfred Jarry con le
citazioni stravolte dell’Amleto, lo sberleffo alla commedia boulevardière stile
Feydeau con la satira antimilitarista che 80 anni fa colpiva come una frustata
l’orgoglio sciovinista della Francia, ancora ben memore della disfatta di Sedan
(1870) che aveva segnato il tracollo del Secondo Impero.
Di tutto ciò, oggi, a
noi importa quasi nulla, è soltanto materia prima che serve ad innescare la
performance gigionesca e sulfurea di Bonacelli, che con faccia da ‘tolla’ e
malizia da Pierino la Peste, come un elefante in una cristalleria fa irruzione
nel salotto dove i suoi genitori ricevono altolocati ospiti, e con scientifica
‘crudeltà’ para-artaudiana si applica a smascherare via via tutto l’ingorgo di
tradimenti, adulteri, corna e bi-corna, maleodorante retorica patriottarda,
follia militarista, ipocrisia borghese che avvolge ed avvelena la vita degli
adulti. A partire dal bellimbusto Charles, papà di Victor, stolido puttaniere
che va a letto sia con la domestica Lili, sia con la sua amante Thérèse, moglie
del generale Antoine, risibile marionetta del più vacuo e falso onore militare
(ma senza un briciolo della geniale, efferata demenza di Ubu Roi). Il
personaggio, tuttavia, più strampalato e fuori controllo è quello di M.me Ida
Mortemart, amica della madre di Victor, Emilie: una sottospecie di femme
fatale che si rivela invero una ‘fatale’ ed esilarante petomane, che
con i suoi irresistibili scoppi di aerofagia scatologica distrugge l’ultima
facciata di rispettabilità e buona educazione e apparenza del ricevimento nel
salotto borghese. Un pezzo degno delle vignette di Georg Grosz con i signori e
le signore della buona società ritratti come laidi maiali.
In tutto ciò sguazza
avidamente Bonacelli, col suo corpaccione rigonfio, con la sua esibita
pappagorgia, con i suoi shorts rigati a mezza coscia e il berretto blu da
“vestivamo alla marinara”. Davvero un’icona smagliante di ragazzino-mostro che
trascina felicemente con sé una spiritosa Valeria Ciangottini che incarna la
bimbetta Esther, figlia di Thérèse e… di Charles, dunque sorellina naturale di
Victor. Bonacelli si ritaglia da par suo anche la scena terminale che svisa
tutta virgolettata sul patetico, col bambinone terribile che si intrufola nel
talamo dei genitori che litigano furiosamente e in modi teatrali ed esagerati
“muore di morte”, così, senza un preciso motivo. Subito dopo il padre ammazza
la consorte e si suicida, mentre salta fuori la colf a siglare la farsa con la
battuta antifrastica e anticlimax: «Ma allora è un dramma!». Postremo sberleffo
invero telefonato. La vetero-avanguardia di Vitrac la possiamo dimenticare, il
primattore Bonacelli lui no, non lo possiamo dimenticare.
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