Diario d’autore (26): note random su strane omonimie; poesie estive e IA; M. Marè; A. Ricci; Bob Wilson; “No Other Land”; ‘Grande Israele’; I. Giovannini; F. Maresco; il ‘mostro’; R. Capone; L. Pintor; E. Cacciatore; La nuova barbarie; Meloni; P. Bonacelli.  

 

di Marco Palladini

 

Aneddoto ► Aneddoto (vero): l’agente immobiliare che ho incaricato di vendere una casa di famiglia mi racconta che ‘copre’ per ragioni professionali una vasta zona tra i quartieri Trieste-Salario e Africano. Ebbene, proprio al quartiere Africano gli capita dopo molto tempo di andare a prendere un caffè in un bar di Piazza Gimma. Parla con alcune persone e quindi riconosce (è alquanto ingrassato) il titolare del bar che si chiama Marco Palladini (sic). Attacca a chiacchierare con lui e gli confida, vedi i casi della vita, che sta vendendo la casa di un signore che si chiama pure lui Marco Palladini. Il barista sorride, poi s’incuriosisce e chiede all’agente che mestiere fa il suo omonimo. L’agente risponde: mi ha detto che è uno scrittore. Il titolare del bar spalanca gli occhi e si dà uno schiaffo sulla fronte, esclamando: adesso capisco! L’agente non comprende di cosa stia parlando, l’altro allora gli spiega: sono anni che ricevo telefonate da parte di sconosciuti che si complimentano per i miei libri. E io fatico a fargli capire che non ho mai scritto alcun libro e semplicemente gestisco un bar. Ecco svelato l’arcano, pensavano che fossi il Palladini scrittore di cui lei sta vendendo una casa.

L’agente mi riferisce tutto ciò ridendo e pensando che mi faccia piacere. Cosa che subito gli confermo: certamente, mi fa davvero molto piacere che abbia dei lettori che apprezzano i miei libri e mi diverte assai l’equivoco che abbiano comunicato tutto questo a un mio omonimo che sta dietro il bancone di un bar. È la conferma che i libri una volta che sono pubblicati e distribuiti vanno per conto loro per il mondo e ‘diventano’ in un certo senso dei loro lettori. Concludo dicendogli che, magari un giorno, andrò a incontrare questo altro Marco Palladini che ha ricevuto degli apprezzamenti letterari al mio posto.    

Mi ritorna, poi, in mente che quando, nell’aprile del 2011, venni violentemente tamponato sull’autostrada L’Aquila-Roma da un giovanotto che guidava una Grande Punto nera, costui, dopo che apprese qual era il mio nome, mi chiese al telefono se fossi lo scrittore Marco Palladini, al mio sì, ci tenne a far sapere che aveva letto un mio libro e gli era piaciuto. Cosa che naturalmente non attenuava l’imprudenza di avere causato un incidente in cui potevamo morire sia io che lui.

Mi piace ripetere che tutto è a caso nel caosmo, ma insieme non lo è e riporta il caso a casa, cioè in una dimensione interindividuale, di sovracoscienza dove le singole traiettorie soggettive possono incrociarsi nei modi e nelle situazioni più strane e imprevedibili.  

       

L’estate in poesia ► (Post su FB, 4 luglio): un piccolo esperimento: l’estate ha rappresentato non di rado un motivo ispiratore della mia scrittura poetica. Recupero qui un paio di esempi: il primo testo fu pubblicato nel mio libro di esordio Et ego in movimento (1987); il secondo risale alla mia terza raccolta Ovunque a Novunque (1995).

In coda ho incaricato ChatGpt di fornirmi un testo con le seguenti indicazioni: sonetto, spirito moderno, tono ironico, stile spoken poetry. Alla fine, è uscito un testo non spregevole, meglio sicuramente di tante canzonette di stagione o dei versicoli della poetanza lirica d’abord. Comunque, chi vuole può leggere e giudicare per conto suo.

 

XXXI

 

Mi si addice l’estate

la sua pigrizia aggressiva

e la caldura che ti refrigera le idee.

L’estate racchiusa

nel concerto di canzonette stagionali

che i sociostorici d’assalto

al primo convegno vorranno abburattare

quali illuminanti messaggi epocali.

L’estate che non contraddice

l’antica mia passione

per i sorpassisti con lo spider

che la cultura:

ma sai ’ndove me la metto?

E per i mattatori accaniti

lungo le piagge del boom-boom

nel ruolo sciolto del dragatore ludico

che dopo te lo spiego.

L’estate anonima

che da Alba a Zelda puoi chiamare

con millanta nomi femminili.

L’estate che ti spoglia

e ti rende insopportabile

l’essere ancor più simile

ai cosiddetti simili.

L’estate anti-estetica.

La mia estate tecoppiana

sotto le stelle col sacco a pelo

e truce smoccolante:

pozzi n’esce lo fiato

pozzi jettà lo sangue.

Sì ‒ mi si addice l’estate

che ti dispone e ti concentra

al duro lavoro su te medesimo

e quindi ti lascia andare in vacanza

nell’inane resto dell’anno.

 

Extate

 

Estate. Sciroccosa tenera sciccosa.

Technicolor da prima aurora sul mondo.

L’idillio di coppiette tra ragazzi-vogue

con i ray-ban a specchio e pulzelle

playmates col body ultrasgambato.

L’arroganza della bellezza.

Spericolatissime corse su quattroruote.

O più sportivamente sul sellino di nippomoto.

Scenografico lungomare incasellato

tra alti palmizi e una teoria

di versicolori stabilimenti balneari.

Capelli morbidi scompigliati.

La luna galeotta. Dichiarazioni

di amour fou sconfinato. Nel frattempo

parecchio sesso a go-go.

Neppure l’ombra di quel lievito d’eros

costretto a dirompere forzuto gli ostacoli

frapposti dal cogente assetto familiar-social-

psico-politico. Contraddizione magna

su cui si basa la fortuna

di quasi tutta la letteratura mondiale

da Omero a Liala.

Non può mancare di contro

il topos di ogni rispettabile storia rosa:

l’infedeltà.

Frequentazione intensiva delle discoteche.

L’amica del cuore di Lei abballando

si prende una furiosa cotta per Lui.

Fuga romantica dei due amanti

su un’isoletta dell’Egeo. Itinerario à la page.

Rotocalchi che passiòn!

Acuta sindrome da gelosia

e crollo nervoso da parte della Lei tradita.

Convalescenza e guarigione

in meno di una settimana.

Insurrezione della carne. Comitive assatanate

che passano da una festa all’altra

presso megaville da invadere

anche e soprattutto quando non si è invitati.

Sbronze storiche. Le mezzanotti ruggenti.

Il padrone con lo smoking bianco

che pare un cameriere

scaraventato senza complimenti nella piscina.

Bullaggini e corbellerie. Ehi, garçon

un altro daiquiri ben ghiacciato!

Ritorno di Lui. Guerriero riposato

e velocemente stufo dell’ex-amica del cuore

di Lei. Vani tentativi di riconciliazione.

Lei non vuole saperne. Lei flirta

con un fustaccio biondo sulla tolda

di un baglietto. Dominanza di tinte cilestrine.

Prendono l’abbronzatura. Integrale

‒ ça va sans dire. Poi scendono nella cuccetta

e scopano. Lui viene a conoscenza.

S’incazza di brutto. Va a cercarla.

Violenta ripulsa. Porte sbattute.

Inseguimenti. Insulti. Accuse e controaccuse.

Vetri infranti. Spiegazioni.

Cuoricini rappezzati. Tira e molla.

Schiaffi e baci. Seconda puntata dell’idillio.

Sulla falsariga della prima.

Love is a many splendored thing.

Da qui all’eternità. Da non credersi.

E via col vento. Sposiamoci. Non so.

Mi pare che tutto corra così in fretta.

Ora o mai più. Allora? Ebbene sì. Sì.

Dopo dodici giorni dodici parte

la richiesta ufficiale di separazione.

A motivo dell’assoluta inconciliabilità

tra le parti. Lei non sa stirare

neppure una camicia! Lui è un decerebrato

che chiama cultura fisica

la sua mania della ginnastica!

Le inesorabili repliche della vita.

Sorseggiando un tropical sotto l’ombrellone

Lei getta un’occhiata distratta

allo spopolato arenile settembrino.

Non c’è molto di più di nulla da fare.

Lettura di un romanzaccio un sacco “meta”.

Titolo: Ballarono una sola extate.

Posticcio e apposta.

Velo di foschia sulla linea dell’orizzonte.

Dissolvenza. Fine assai.

 

CHATGPT: Estate (parole sudate)

 

Estate è un miraggio che puzza di crema solare

un ventilatore che gira, gira... ma l’aria non cambia.

È il corpo che dice basta, ma la città insiste,

è il bar che chiude tardi, ma il sonno non esiste.

 

È gente in fila per l’apericena,

è lo spritz che costa quanto un pranzo in Lettonia,

è la sabbia che ti entra dove non dovrebbe,

e la spiaggia, affollata come il tram delle sette.

 

È il post su Instagram col filtro “paradiso”,

ma fuori campo c’è un urlo e un sorso di compromesso.

È l’amore d’agosto che dura... fino al Wi-Fi,

e il cuore che ci spera, anche se poi lo sai.

 

Però -

c’è quella sera.

Quella brezza.

Quella voce che ride e ti sfiora.

E allora pensi: ok, anche stavolta,

l’estate ce la siamo bevuta. Ma ne è valsa la gola.

 

Mauro Marè ► Quodlibet, piccola ma altamente qualitativa casa editrice maceratese, oltre alla saggistica letteraria e filosofica, da un po’ di tempo, su impulso di Giorgio Agamben, si sta dedicando alla poesia, recuperando autori o testi per lo più in lingua dialettale, tralasciati o dimenticati. Così, dopo Pasolini, Zanzotto, Francesco Giusti, Biagio Marin, Franco Scataglini, Emilio Rentocchini e Amedeo Giacomini, c’è per me la lieta sorpresa di una antologia di Poesie (2025) di Mauro Marè, quello che reputo non ‘dopo’ Belli, bensì ‘assieme’ a Belli, il maggiore autore in assoluto, in lingua romanesca. Il volume contiene i tre ultimi libri pubblicati da Marè prima della sua precoce dipartita nel 1993 a 58 anni. Sono, come sottolinea nella sua preziosa prefazione Agamben, le raccolte che segnano nella produzione del poeta una decisiva ‘svolta’, quella ovvero di sganciarsi dalla tradizionale gabbia metrica chiusa del sonetto, per navigare nel ‘verso libero’, adottando moduli anche sperimentali che implementano sia linguisticamente che concettualmente quella che Marè chiama la “lingua serciosa”. Cioè, la lingua romana o romanesca percepita come un ‘sercio’ ossia una pietra, con un palese, anche, richiamo alle “rime petrose” dantesche. Ma la lingua romanesca è ‘serciosa’ perché non è una lingua di conciliazione, di incontro armonico o lirico con il mondo, al contrario è una lingua di conflitto, irosa, puntuta, kakohumorale, ma anche iper-sarcastica, acidamente divertita e divertente, corrosivamente carnascialesca, lingua corporale, di trippe e budella e miasmi materiali e morali. Agamben cita lo stesso Marè che assevera: “La parola è pietra scagliata al cielo, non verbo di Dio che pacifica, ma verbo dell’uomo che interroga, disperata domanda verso le tavole bianche dov’è inciso il silenzio di Dio”.

Marè che conobbi grazie al suo caro amico Mario Lunetta all’inizio degli anni ’90, mi fece una strana impressione: nella vita civile era un dovizioso notaio, sempre correttamente ed elegantemente vestito in giacca e cravatta, un bell’uomo coniugato con l’artista visiva Annamaria Polidori; nella sua scrittura era invece uno scatenato e assai colto e fin diabolico ‘jongleur’ della parola poetica che non faceva sconti a nessuno e che mostrava, dietro la sua facies di distinto borghese, un’anima di fustigatore di vizi e costumi e stigmi antropologici, ma pure di vorace delibatore di vite urbane e quotidiane in cui lui si immergeva per il tramite di una lingua bassa, aggressiva, mordace & merdace, oscena, che non dava requie, ma talora faceva brillare colori malinconici e acute riflessioni sofopoetiche.

La presente antologia contiene i testi di Sìlabbe e stelle (1986), Verso novunque (1988) e Controcore (1993), la raccolta postrema dove si accentua lo sguardo filosofico e dolente e disincantato verso l’umana eteroclita gens della capitale. Comunque, quello che fin dal primo incontro mi conquistò subito di Marè è la sua inventività linguistica, la straordinaria escogitazione di neologismi a go-go, le ‘mots valise’, i continui rimandi sottotestuali tramite vernacolari sintesi ultraviolette. Ho sempre pensato che il ‘rommanesco’ (come amo chiamarlo) sia un dialetto manesco, che picchia duro e poi ti fa l’occhiolino. Il mio invito è, allora, ad andare a leggere o rileggere i testi di Marè, leggerli o rileggerli possibilmente ad alta voce, per godere della elettrizzante, energetica loro musica verbale, della complessa sonorità di un dettato poetico non di rado spassoso. Mi piace allora proporre qui un testo che è, pure, quasi un manifesto della sua poetica:

 

Una linguaccia

 

Zozza, boja, balorda ’sta linguaccia

romanesca che nun ce pòi fa un volo

più su d’uno starnazzo. È bona solo

a pijà tutto er monno a pesci in faccia.

 

Ogni parola, un sercio. Cià la fionna

er romanaccio in bocca e pe la rabbia

de secoli passati chiuso in gabbia,

ogni botta una tacchia, tonna tonna.

 

E dentro ciarisona er travertino

de le colonne, er granito, er basarto

e l’urlacciacci de mazzola e squarto

der tempo der governo papalino.

 

È una lingua perdìo che taja e cuce,

che strilla, che zagaja e nun s’abbacchia

e che a metteje addosso la mordacchia

nun furno boni né er papa né er duce.

 

Lingua de stocco, lingua scellerata,

lingua che si per caso t’innammori

te more in petto e nun te sorte fori

artro che un fiotto: vammoriammazzata!

 

E chiacchiero e me sciacqua in bocca er sasso.

Er verso sputa in faccia a la poesia.

Scrivo pe tigna e pe cojoneria

co la mancina. Co la dritta scasso.                       

 

Segnalazioni A proposito di poesia in dialetto non posso non segnalare il magistrale saggio-non saggio La léngua vitorbese (Effigi Edizioni, 2025) firmato da Antonello Ricci. Un libro davvero straordinario in cui il viterbese Ricci è riuscito ad accoppiare la sua competenza di studioso, antropologo culturale, storico locale, dialettologo, linguista, docente, poeta e quant’altro, con la sua sapienza e lunga esperienza di narratore “di comunità”, di brillante contastorie. Così, il volume, anche per un soggetto non edotto nella materia, come il sottoscritto, risulta di piacevolissima lettura, oltreché di gran profitto, dal momento che si possono imparare tantissime cose di cui si è beatamente ignoranti. Si tratta sicuramente di un rigoroso saggio, repleto pure di termini linguistici tecnici (vedi “diastratico” o “ortoepia”, cercatevi il significato), ma che si fa leggere come un romanzo sulla storia della lingua o parlata di Viterbo, sui suoi oscillanti rapporti con l’area dialettale umbro-maremmana e poi con Roma. E, quindi, con un ampio focus sulla specifica produzione poetico-dialettale “vitorbese” che sembra principiare con il sonetto Folhore viterbese (1876 circa) di Cesare Pinzi, ma che poi trova un pieno dispiegamento con la produzione in versi di Enrico Canevari (1861-1947), di Emilio Maggini (1900-1986) e di Edilio Mecarini (1923-2003).

La léngua vitorbese – libro che si avvale pure della partecipe prefazione e degli interventi di Marco D’Aureli, ed è arricchito da numerose illustrazioni e appendici varie, nonché dalla icastica copertina disegnata da Lorenzo Ricci e da una quarta di copertina di Antonello “Isoglosse Tuscia viterbese” che è una cartografia poetico-visiva ispirata a una mappa dei dialetti di Giovan Battista Pellegrini –  mi sembra un risultato apicale nella prolifica ed eclettica produzione critico-letteraria di Ricci. Anche perché in esso vi è la consapevolezza che in una “léngua” si incarna l’anima di una comunità e dunque la ricostruzione del suo diacronico percorso è un modo tardo-umanistico di annodare la tradizione passata e l’identità presente della gens viterbese.

Infine, mi verrebbe da dire che questo volume mi appare un format, ovvero un modello (sul serio) per unire spessore analitico-ermeneutico e scientifico con una divulgazione culturale non corriva, capace di intrattenere il lettore, e dunque lontana dagli accademismi tanto spesso tediosi e pesanti da digerire. La leggerezza dell’essere della scrittura pervade questo saggio a cui bisogna rendere merito e lode.

 

Bob Wilson ► (Post su FB, 31 luglio): Rammento una conferenza stampa, a cui ero presente, di Carmelo Bene che alla domanda: chi le piace, chi le interessa nel teatro contemporaneo? Così, replicava: nessuno, esisto soltanto io e... (studiata pausa) forse Bob Wilson.

Ecco persino un teatrante iperegotico come Bene, alla fine, a denti stretti doveva ammettere che vi era un altro genio, oltre a lui, nel teatro di fine Novecento. Bob Wilson, questo genio, se ne è andato oggi. Un assoluto gigante della scena moderna e postmoderna di cui ho visto tanti spettacoli, sempre ammaliato dalla sua straordinaria capacità di regista creatore di immagini e dal suo insuperabile talento nell’uso visionario-pittorico delle luci teatrali.

Lo voglio ricordare con una nota critica che pubblicai, nel mio libro del 2009 I Teatronauti del Chaos, su uno dei suoi memorabili spettacoli:


«Un supremo esempio di tradizione dell’avanguardia. È questo Doctor Faustus Lights the Lights (1992) del regista americano Bob Wilson, operante da molto tempo in Europa, dopo essere stato negli anni ’70 uno dei fondamentali e più influenti innovatori del linguaggio teatrale. Ormai assurto al rango di maestro della scena contemporanea, Wilson (classe 1941) ha tramutato la sua indole sperimentale in grande stile, in forma matura di una vocazione artistica da sempre incline all’opera totale. È con questo spirito che il regista di Waco (Texas) si rivolge ad un testo della sua connazionale Gertrude Stein, concepito originariamente nel 1938 come libretto d’opera. L’omaggio alla maggiore scrittrice americana d’avanguardia del ’900 vuole, infatti, mettere in evidenza le radici profonde di un codice espressivo radicalmente anti-naturalista e tendente allo scarto, alla dissonanza, all’astratto. In tal senso l’abbinamento Stein-Wilson funziona benissimo. La rielaborazione ironica e un po’ nonsense del mito di Faust che vende la sua anima a Mefisto per poter scoprire la luce elettrica e che, alla fine, insoddisfatto uccide un ragazzo e un cane per poter precipitare all’inferno, passa per una partitura verbale fitta di ripetizioni, allitterazioni, inversioni semantiche, incastri di giochi di parole al limite dell’anagramma o della filastrocca. Mirabilmente calcolata e soppesata la scrittura diviene partitura fonetica e sonora, già postmoderna Gertrude Stein risolve la narrazione in pura decostruzione.
Questo stimolante materiale testuale fornisce il destro a Wilson di inventare una partitura scenica globale in cui luce, gesto, architettura dello spazio, movimento, musica, canto, recitazione moltiplicano ed esaltano, per speciale affinità estetica, il senso di sperdimento umoristico di Faust, l’abbassamento della tragedia verso la parodia realizzato dalla Stein. Alla resa dei conti Doctor Faustus Lights the Lights, prodotto dall’Hebbel Theater di Berlino, è una sorta di musical d’avanguardia, ammiccante e sofisticato assieme, sorretto dalle composizioni di Hans Peter Khun che alternano spunti seriali, melodie pianistiche, brani cabarettistici, e dalle coreografie di Suzushi Hanayagi che richiamano l’eleganza di Balanchine. Ma la bellezza dell’allestimento deriva essenzialmente dal freddo metodo compositivo di Wilson che crea squisiti quadri visivi con portali di luce, neon che salgono e scendono, contrastati controluce in bianco e nero, fondali a tinte pastello di grande purezza, un praticabile sospeso e variamente inclinabile, geometriche linee luminose multicolori che isolano o disegnano sempre diverse porzioni spaziali. Ad abitare dinamicamente la scena entrano personaggi che si scindono e si contrappuntano in più figure tra passi di danza e gestualità neurotiche. Così, se Mefisto si sdoppia nel diavolo in rosso e nel diavolo in nero, di contro circolano tre Dottor Faust, uno dei quali per ringiovanire si toglie la giacca restando a torso nudo; così, girano pure tre Margherite che sono anche “Ida, Helena e Annabel” e fanno coppia con un ragazzo spilungone e un’attrice zompettante che incarna un cane che ripete sempre “grazie!”, e ci sono ancora un certo Mr. Viper che muove un burattino e una Contadina che giganteggia sui trampoli rivestita di bianco e che manovra una lucida falce come una clownesca Sorella Morte.
La calibratissima macchina scenica di Wilson, disposta su più piani di profondità, crea un’identità strutturale con la scrittura cubista della Stein e traduce il suo funambolismo dalle parti di una sublimata astrazione. Pur se l’artista texano non perde mai il senso del teatro orchestrando e mescolando il rimbalzo delle parole, il diavolo che sbatte e inciampa ad ogni uscita, le lampade che calano citando Edison, un suo spettacolo del ’79, la colonna rumoristica di colpi e vetri infranti che funge da eco istantaneo delle mosse degli interpreti. I quali sono tutti giovanissimi attori di una scuola dell’ex-Berlino Est e si prestano con grande spirito di abnegazione a recitare in un inglese alquanto gutturale e ad eseguire con totale e ammirevole dedizione il complesso e pluriforme tracciato scenico ideato dal maestro statunitense».

 

“No Other Land” ► Ho visto con (colpevole) grande ritardo No Other Land (2024), un vivido e doloroso docu-movie firmato da un quartetto palestinese-israeliano: Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor, Hamdan Ballal. Il film realizzato tra il 2019 e il 2023 documenta, appunto, le operazioni di sgombero di una ventina di villaggi palestinesi nella zona di Masafer Yatta, da parte dell’esercito israeliano con blindati e bulldozer che demoliscono sistematicamente case, pollai, scuole, aree giochi, etc. col pretesto di creare un’area di esercitazioni dell’Idf, in realtà per favorire l’arrivo di nuovi coloni israeliani che si presentano, protetti dai soldati e pure loro armati, e sparano senza problemi contro la gente locale. No Other Land mostra al contempo la paziente, accanita resistenza delle famiglie e degli attivisti palestinesi, che oppongono i loro corpi e organizzano cortei e manifestazioni, contro questo sopruso colonialista e criminale in un territorio che sta in Cisgiordania (la cosiddetta West Bank) e ricade sotto il governatorato di Hebron. I palestinesi sottolineano che le loro famiglie abitano in quella terra dagli inizi dell’Ottocento, ma i funzionari e i militari israeliani neppure gli rispondono, una bionda soldatessa dice loro con sguardo arcigno: fateci fare il nostro lavoro. Sì, uno sporco lavoro, ma tanto i palestinesi non hanno alcun diritto, se non quello, secondo le autorità e la Corte Suprema di Israele, di piegare la testa e andarsene.

I protagonisti del film sono il palestinese Basel Adra e l’israeliano Yuval Abraham, giovani giornalisti che cercano con riprese video e articoli pubblicati in rete di far conoscere la situazione e aiutare la resistenza delle famiglie locali ridotte ad abitare in grotte. I due sembrerebbero, anche somaticamente, intercambiabili, ma non è così. Basel vive lì, a Masafer Yatta, con i suoi famigli, il padre, tenace attivista, è stato più volte arrestato e lui deve sostenere i consanguinei, sostituendolo alla pompa di benzina. Pur laureato in giurisprudenza Basel non ha prospettive, vorrebbe forse andarsene, ma non può uscire dalla Cisgiordania, è sempre più stanco e deluso, ma ha introiettato lo spirito di resilienza palestinese e dice all’altro che bisogna tenere duro, avere pazienza. Yuval, l’amico ebreo, può invece andare e tornare quando vuole, lui che vive a Be’er Sheva, ha più fretta, vorrebbe risolvere la faccenda più rapidamente, giudica criminale la politica del suo paese e la denuncia, così in televisione i rappresentanti della destra sionista lo accusano di essere un ebreo che è contro gli ebrei. Alla fine, forse, pure lui condivide il senso di impotenza e di frustrazione dei palestinesi espulsi da Masafer Yatta, mentre crescono le macerie dovute alle implacabili demolizioni degli edifici locali. Il documentario fa vedere senza filtri il giovane Harun Abu Aram che cerca di difendere il generatore elettrico della sua famiglia e viene ferito gravemente da un soldato dell’Idf e resta tetraplegico e poi dopo qualche anno muore. Così, pure vediamo, qualche giorno dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023, un controassalto a Masafer Yatta di coloni ebrei armati che feriscono con un colpo al petto Zakriha Adra, un cugino di Basel, mentre in coda sempre più famiglie con auto, pick-up, van e carrelli ricolmi di masserizie abbandonano i villaggi. Il colonialismo sionista avanza senza tregua, come in una Nakba infinita.

Ecco, si esce dalla visione di No Other Land con un senso di amarezza e di profonda ingiustizia. La sproporzione tra i brutali atti di forza dello stato israeliano e la disperata resistenza delle genti palestinesi, uomini, donne e bambini, che chiedono soltanto di poter vivere una vita normale, è macroscopica. Già molto prima del 7 ottobre e della mattanza genocidaria di Gaza. E debbo dire che di fronte a tale sproporzione, al senso di disperazione ed esasperazione e umiliazione che ne deriva, è difficile non capire la decisione di una parte degli uomini di Palestina di aderire ad Hamas e rispondere al terrorismo israeliano con un controterrorismo. La guerra, da qualsiasi fronte la si faccia, è un orrore e una merda, ma anche vivere una vita sempre schiacciati, conculcati di minimi diritti, strappati via dalla propria terra, denegati nella propria identità e nelle proprie radici, è una condizione orribile e, alla lunga, insostenibile…                        

 

‘Grande Israele’  (Post su FB, 21 agosto) Intervistato sul ‘manifesto’ il regista iracheno, ma abitante in Cisgiordania, Abbas Fahdel ha precisato: “Israele è una colonia creata per decisione dell'impero britannico e divenuta uno stato dopo la guerra e l’olocausto su decisione delle potenze europee. È la loro colonia, ci sono molti europei o americani che sono i più fanatici, in Cisgiordania i coloni americani sono terribili, il loro razzismo si rivolge verso chiunque non ha la loro stessa religione o colore della pelle, gli ebrei orientali o laici vengono condannati. Sono peggio dei fascisti, mi fanno pensare a una versione ebraica dell’Isis, vogliono annettere Gaza e la Cisgiordania, e Netanyahu e i suoi ministri seguono la stessa linea, pensando di estendersi sino alla Siria, all’Iraq e forse a parte dell’Egitto”.

Il piano della Grande Israele è chiaro e, ormai, il dado è tratto, non si fermeranno, con la copertura di tutto l’occidente, a parte qualche ipocrita dichiarazione. Il peggio deve arrivare... augh

 

Per Imma Giovannini ► (Post su FB, 29 agosto): Mi ha raggiunto stamane la notizia del decesso di Imma Giovannini, malata da tempo. Notizia che mi addolora molto, pur se la conoscevo da non più di una decina di anni. Imma piena di energia e di spirito, come dire, impresariale, nonostante la sue non buone condizioni di salute, mi aveva più volte coinvolto in eventi performativi concernenti i testi letterari-teatrali di Luigi Rigoni (1965-2017), bravissimo attore mio amico, e di cui lei è stata compagna e, vorrei dire, quasi angelo custode pur nella inclinazione autodistruttiva di Luigi. Imma, unitamente a Sergio Bevilacqua, intellettuale, saggista e editore, mi aveva coinvolto pure nella pubblicazione di due libri postumi di Rigoni: il testo vertiginosamente sofo-poetico Il poema di As e, poi, soprattutto la Antologia Rigoniana (IBUC, 2024), che includeva interventi saggistici di Pippo Di Marca, Gino Scartaghiande e del sottoscritto.

Fervida ‘anima’ amicale e organizzatrice di tutto ciò, nonostante le declinanti condizioni sanitarie, Imma così ha sigillato il suo immenso dono d’amore per Luigi, facendo conoscere una gran parte dell’eredità poetica e drammaturgica di Rigoni, che lui aveva tenuto nascosta per l’intera sua vita. Adesso si ritroveranno da qualche parte. Inviando un pensiero di affetto e di ammirazione a Imma (ho conosciuto poche donne che si sono così tanto spese per la memoria dell’uomo e dell’artista amato) ripubblico la poesia che dedicai a Rigoni, poco dopo la sua morte (aprile 2018), allargando la dedica stavolta anche a Imma:

 

Missiva postuma a Luigi

 

Che Carmelo, il Bene del nuovo teatro

potesse diventare il tuo male

te lo dissi molti anni or sono,

la prima volta che ti vidi in scena.

“Sii te stesso, Luigi Rigoni e basta”

dichiarai secco e tu guardavi in tralìce,

sembravi un poco o tanto infastidito.

Poi la tua devota maniera ‘filocarmelitana’

crescendo e maturando si dissolse

e l’attore Rigoni apparve in tutta

la sua potente misura che era una dismisura

per impeto ed ironica iattanza

per sicurezza e massiccia presenza

per vis recitativa e voce espansa.

Dopo un po’ però ti persi di vista,

nella declinante sperimentazione capitolina

erratico e lampeggiante il tuo percorso

mi pareva una epifania scaturita

da un voler restare nascosto ed imprendibile,

mentre forse era soltanto la dannazione

di un mal di vivere che non trovava requie

se non in un tormentoso stato alcolico.

Il battello ebbro del tuo teatro

fece ad un certo punto naufragio e seppi di te

per brutte vicende e tristi epiloghi in prigione

e ad Aversa in manicomio giudiziario.

Di fatto calò per me il sipario su di te,

persino la tua precoce morte a soli 51 anni

mi sono perso e forse è stato meglio così,

la luttuosa notizia mi avrebbe amareggiato

e fatto pensare al tuo fulgido talento di attore

sprecato, gettato in più di un senso alle ortiche.

Ma, capisco, ciascuno ha il suo karma

e tu di certo non eri un ragioniere o un lecchino,

bensì un artista per passione e dissipazione

al pari di Vittorio Vitolo alias Victor Cavallo

che ammiravi credo pure per il suo impavido

affacciarsi sull’abisso, avendo l’abisso dentro di sé.

Parce sepulto e io rivedo la tua aperta faccia sgherra

che attraversa con noncuranza un tempo memoriale

in questa mia piccola missiva postuma e irrituale.

 

Sberleffo ► (Post su FB, 8 agosto): Nell’ultima (per me imperdibile) pellicola di metacinema di Franco Maresco Un film fatto per Bene, tra mille altre cose e immagini, c’è una scena memorabile ed esilarante che è la parodia di una scena del bergmaniano Settimo sigillo.

Antonio Rezza col costume-maschera della morte si trascina appresso San Giuseppe Desa da Copertino, il santo che volava, su cui Carmelo Bene scrisse una sceneggiatura purtroppo mai convertita in pellicola. Rezza conduce questo santo mezzo scimunito, che sembra uscito da “Cinico Tv”, davanti a una scacchiera posta su un tavolo e gli dice con la sua voce chioccia: gioca, se vinci continui a vivere, se perdi muori, se fai patta ti ammazzo perché il pareggio non serve a niente. Quindi aspetta che il santo faccia la prima mossa. Taglio di montaggio: vediamo Rezza con l’aria annoiata, per non dire scoglionata, che ancora attende dopo lungo tempo la mossa dell’altro. Quindi gli fa: Peppino, ma tu hai mai giocato a scacchi? E l’altro replica secco: no!

Ecco come sbaragliare la morte (e il cinema di Bergman) con uno sberleffo!

 

Mostro! ► Nel libro di Antonio Attisani e Lea Melandri La vita impresentabile (Edizioni Cronopio, 2024), mi colpisce leggere (pag. 96) in riferimento all’Unico di Max Stirner, questa frase di Attisani: “... allora può iniziare il cammino dell’unicum, ovvero quel divenire mostro, o mostro in divenire, un cammino che ineluttabilmente si compie nella storia di oggi e nell’anagrafe”. Perché mi ha richiamato un testo poetico scritto quasi 40 anni fa (giugno 1987, poi pubblicato nel volume Ovunque a Novunque, 1995) e che avevo dedicato alla compagnia teatrale Magazzini di Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo, che evocava in limine proprio la figura del ‘mostro’ assieme creatura orribile e essere prodigioso. Ecco la poesia:

Tournée del non ritorno

 

Blu inconscio e ronDo di petto e cavatine

più frilli poi che trilli

i cavaossa      gli strappapelle

in morte di Francesco     a concludere convennero

un tal splenetico show      itifallica operazione Alcantara

ovvero saggio indexicale      del solo bieco

punto di rottura

 

Rinzaffi di action painting      se è vero sangue

non è cruauté      un rapporto confidenziale

forse      ohccaso! di macelli cavalli camalli fondelli

ohsfracelli!      andremo al massacro

per delle bagattelle      ille dixit

Genet a Tangeri       come Rimbaud in Abissinia

e Tagore al mare      sul battello d’oro ins null

cumparsita scirocco e quanti gli autocompianti!

 

Eppur livido di pensieri nascosti Federico espone

il ritratto dell’attore da giovane

l’uomo senza volontà fallisce il blitz     del sotterfugio

sgommando sulla strada     a commando

il fotofobico bislacco deflora le notti senza fine

fiuta coca ricercando l’Apeiron      la festa

o pentecoste del decennale smarrito

 

Ancora cavalli matti e ratti paranoici

rose tea sacrificate a lo spirito

del giardino delle erbacce      offa straniera numero 39

nel cronicario dei falsi addii

sul carrozzone del non ritorno      bucranio in mano

e amletizzando      fanno la vita propria a pezzi i pazzi

nervous breakdown       he collapsed in the corner

un bel crollo nervoso       da moviolare

per poi fare il dolce niente      balbutire al con tactus

e nientare il fare dolce

 

Le molli natiche e gli infami destini

di chi rompe il riserbo      come è     di chi attacita

la dissidenza con il pudore      ci irrorano

le zone calde erogene di body-stars già frigide

e per il coitus laggiù a Soho dimolto scàciual

soddisfatti naturalmente o rimborsati

i portatori di peste       filo e vetero freudiani

sul campo verranno sbaragliati

dai nuovi agenti dell’aidiesse

 

La mucida lamia incontra Sandro      la donna stanca

incontra il sole       nell’ombra diurna

si trama la presa in giro      e poi

il vero e proprio raggiro      di tra una spocchiosa luna

e le giaculatorie del dilucolo      c’è il tempo

di meditare su una Epochè da farsa      viaggio e morte

per acqua scura       inseminando senza fare chiarezza

oggi un amore sahariano       domani un odio maghrebino

i presagi del vampiro       sono la più pura attuale

postfezia scientifica

 

Con toilette camp      da matrona della suburra

Marion offriva il suo seno rubedo alla passione ctonia

al miracolo della neve     opponeva la banalità

di un’ejaculazione albedo      sono una tigre di carta

sclamava      una pantera di plastica      un puma di paillettes

xantosi fortore di mia natura animaiala

tel quel malfida creola con espadrillas

che fa violenza alla violenza      giustizia la giustizia

rivolta la rivolta      languidamante surprofilata

contro vedute di Porto Said      già totem di Mariposa

e idolo nigredo dei lavatoi contumaciali

lei nel meriggio si vende      e spaccia

la mitografia della propria autocancellazione

 

Hondivaghi notturni e nuovi futuristi      (they eat

plumcake)      taglieggiano il fededegno Ebdomero

la crisi della metafisica è vezzo o vizio?

la bustrofedica scrittura del liberostilista

bifferà davvero la vita immaginaria di Paolo Uccello?

 

domani tanto gli anarcoscribi faranno pippa

saranno i postbruciati      i buoni soltanto

a infinitamente carbonizzarsi

 

Guevara Fidel     suonato al massimo volume

l’urlo sale e criminale dei rockbusters

last concert polaroid     per photoseriali ganzette slurpeggianti

chi fruga-fruga      chi caccia-caccia nel café elektric

(these girls are easy meat)

i magazzinali delloscenotribadismo celebrano

la Soror Mystica e lo Zoon Politikon

bombardando il quartier generale sandinista

l’impegnativa autoconfessione:      fuori forse non sembra

ma dentro vi assicuro io sono un (il) Mostro!

 

Remo Capone: una turgida fedeltà poetica a se stesso Se ne andava lo scorso anno novantenne Remo Capone, fotografo e autore letterario di significativo talento che mi fece conoscere Carlo Bordini, suo fraterno amico e sodale fin dalla (loro) giovinezza. Per ricordarlo sono andato a rileggermi la raccolta della sua non copiosa produzione poetica, di cui mi aveva colpito il titolo generale: Nel corso del tempo. Titolo letteralmente ‘rubato’ a un famoso ‘cult movie’ del primo Wim Wenders (Im Lauf der Zeit, 1976). In quella pellicola ‘on the road’ (terzo capitolo della “trilogia della strada” del regista tedesco) già si preconizzava, tra molte cose, e con decenni di anticipo, la malinconica chiusura dei cinemini di paese e di provincia, vista da uno dei due protagonisti, Bruno ‘King of the Road’, di mestiere riparatore di proiettori cinematografici. In un certo senso Wenders dava, con un quarto di secolo di anticipo, il suo addio a un Novecento cine-mitopoietico che si eclissava, mentre già si annunciava un tecno-futuro che il regista avrebbe, poi, tematizzato nel film Fino alla fine del mondo (1991).

Ecco Remo Capone sembra svolgere il tema dello scorrere del tempo e del congedo verso il passato attraverso un percorso poetico in cui s’intrecciano il filone amoroso, quello amicale e quello legato al suo sguardo sul paesaggio e sulla natura che fa palesemente pendant con la sua opera fotografica incantata, sospesa, tra scorci e panorami, dettagli e orizzonti, vedute insolite e tracce enigmatiche, che a me rammenta assai l’arte di Luigi Ghirri, anche per la comune attitudine a sfornare foto in cui la figura umana non c’è quasi mai e, quando compare, è sullo sfondo, minuscola, il particolare di una scena, mai protagonista, mai in primo piano.

Lo svolgersi del filo temporale s’interfaccia ovviamente con la grana dei ricordi, particolarmente vividi quando evocano i corpi delle donne amate, di cui apprendiamo via via i nomi: Miriam, Nicoletta, Aurora, Carla, Piera. «tu / incerta / nascondi le mie parole / in un posto segreto / dove decidi di non guardare». Ma il gioco amoroso nella memoria di Capone ha sempre un punto di caduta terminale: «Dicevi / che mai / eri stata così bene / distesa sulla sabbia / al sole / come accanto a me // dirai queste cose a un altro? // E / se non le dirai / perché / vuoi stare / male?»; «… I tuoi occhi smarriti / ti guardano / guardano il mio grido // dall’orlo del pozzo / i tuoi occhi smarriti / ma il grido / non ti raggiunge / precipita / insieme con me». Questa trama di sguardi e di autosguardi che si smarriscono e quindi si perdono definitivamente mi sembra il precipuo ‘sentiment’ della poesia di Capone, nel cui guardare fotografico trabalzano occhi e bocche, cieli e capelli, membra e prati, braccia e ruscelli, seni e stelle, vento e pelle, nuvole e schiene, muscoli e uccelli. Che poi tutte le sagome dei soggetti amati si trasfigurano ossimoricamente in una «ignota conosciuta… Sei tu conosciuta ignota / che ritorna o arriva / che mi porge / a sconfinati sognati orizzonti». La conosciuta che si ignora o la ignota che si conosce è come l’arché dell’amore sognato o da sognare, quel trasporto che ogni volta riscopriamo e ci sorprende anche quando pensiamo di saperne ogni piega, ogni pensiero nascosto.

Nel poetare di Capone si coglie una forte linea di continuità con la sua giovinezza, mi sembra di poter dire che l’impronta del suo sguardo dai venti agli ottant’anni non sia di fatto mutata. Così pure la sua scrittura non muta ‘nel corso del tempo’: è sin dall’inizio una scrittura trasparente, lineare, mai ermetica, semplice senza essere semplicistica, aliena da qualsivoglia barocchismo o sperimentalismo, ma pure da un lirismo aulico o enfatico. La lingua di Capone è una lingua piana, controllata, direi autocentrata, con una evidente intonazione prosastica. E infatti i punti alti della sua poesia si rinvengono, secondo me, nei testi di spiccato andamento narrativo, nello slancio del prosimetro.

Penso, in particolare, a una composizione come “Ricordo” che è pressoché un racconto di educazione alla vita di un fanciullo sulle piste di un «uomo burbero e sornione (e dolce)», un uomo che gli insegnava a cacciare e a pescare, «… poi, la notte sul piazzale / della piccola stazione, / lo sentivo parlare / insieme con gli altri / mentre io quasi dormivo; / mi sembrava parlassero / al cielo buio pieno di stelle / alla notte stessa / che risuonava tutta / delle loro voci / come fosse / una casa immensa». Qui sembra di ravvisare il senso di felicità di una età fanciulla, ma anche la sua fuggevolezza, momenti e attimi di pienezza che rapidamente svaniscono e declinano in un malinconico finale: «Sento che anche il fiume, / la stazione, i grilli / si perdono a poco a poco / e insieme si allontanano / con l’uomo burbero e dolce / e sornione; spariranno insieme, / per sempre».

Una analoga memoria diegetica è dedicata alla cugina “Luigina” richiamata in un testo del 2008, presumibilmente dopo la sua scomparsa, nella epifania dei suoi splendenti diciannove anni: «… arrivasti dalla città distrutta: / piena di sfolgorante bellezza / occhi verdi avevi / capelli lunghi, castani / corpo snello e magro / gambe veloci / loquela vivace / entusiasmo e forza / sorriso che coinvolgeva». Lo sguardo del bambino innamorato dura e perdura anche nell’animo dell’uomo anziano che rammemora: «Ciao bella fanciulla / sei stata / per tutti quelli / che conosciuta t’hanno / una sorta di forza vitale / scaturita dal mare e dalla terra».           

Capone mi sembra avere serbato fortemente e gelosamente, nell’arco delle nove decadi della sua lunga vita terrena, quello sguardo bambino innamorato sul mondo e sulle persone care. Così il suo circoscritto poetare appare, in primo luogo, un turgido attestato di fedeltà a se stesso, ai moventi e agli affetti basici che hanno guidato il suo molteplice operare tra fotografia e letteratura. Tanto più ciò si dimostra nel lungo, bellissimo racconto in versi dedicato all’amico, credo fondamentale della sua vita, il poeta Carlo Bordini. Remo, nel luglio 2021, otto mesi dopo la dipartita di Carlo, gli indirizza un epicedio narrativo appassionato e fraterno, ma ricco pure, oltre alla citazione di varie occasioni di collaborazione, di aneddoti divertenti, di passaggi umoristici, di distonie spiazzanti: «Perché con Carlo era così: spesso il paradosso surreale e/o scherzoso / si nascondeva sotto una maschera di serietà, che in seguito / mi venne abbastanza facile decifrare, / ma che all’inizio / mi lasciava sempre col dubbio: stava scherzando o era serio?». Il rapporto tra i due lievita anche su una comune, ma non collimante adesione al comunismo; così cogliendo lo spunto dall’essere stato incluso in subordine alle carte di Bordini nel Fondo Fortini, Capone sottolinea: «sto insieme al mio amico carissimo / al mio fratello più grande e anche più piccolo. / Parleremo di politica / lui sosterrà di essere un pessimista / e che non vede più alcuna speranza / per sapiens, sapiens / io che invece non è vero / si tratta del suo solito modo di mascherare col paradosso / il suo vero pensiero».

Tale resilienza e renitenza di Capone a una visione pessimistica e sconsolata, per non dire nichilistica rispetto al mondo odierno, mi ha fatto tornare in mente i non pochi suoi interventi di taglio sociopolitico pubblicati sulla rivista L’Age d’Or, da me diretta. Scritti pugnaci, mai ripiegati su se stessi, sempre acutamente critici e interrogativi sia che trattasse del possibile collasso ecologico del pianeta, sia delle rinnovate minacce di guerra nucleare, sia delle problematiche derivanti dai cambiamenti indotti dalla tecnologia e dalla intelligenza artificiale. Nonostante la sua età avanzata era sempre sul pezzo Remo, non demordeva e questo spirito di intellettuale militante lo ritrovo in pieno in questi versi: «Come posso / architettare poesia / da solo / ora che ci siete anche voi / e abbandonarvi / per tornare a esser felice / se ci siete anche voi / che volete esserlo / ma / come posso dire di no / alla vostra illusione / soltanto posso / lucidamente decidere / di rinunciare da solo / e / tutto questo / aiutarvi a capire».

Come sapeva il conte Giacomo Leopardi bisogna realizzare “la strage delle illusioni” per forgiare una vera poesia pensante o un vero pensiero poetico. Ecco, in questa direzione Capone ha provato sino all’ultimo a fare la sua parte, abbandonando le illusioni collettive e cercando di aiutare gli altri a capire, a ‘intus-legere’. Per, poi, forse un giorno ritrovare la felicità.

 

Futuro senza futuro ► (Post su FB, 20 settembre): «L’odio si sommerà all’odio e devasterà gli animi più che le armi i corpi. Che futuro è? Un futuro senza futuro. Il terrore e la guerra non più come escrescenza ma come normalità».

Sono parole che Luigi Pintor scrisse sul ‘manifesto’ il 10 ottobre 2001, subito dopo l’inizio dei bombardamenti in Afghanistan da parte di Usa e Gran Bretagna come risposta all’abbattimento delle Twin Towers.

Puntualizzava anche Pintor: «questo scenario di guerra asimmetrica potrà durare quarant’anni come la guerra fredda. Non è un progetto ma un meccanismo in atto».

Considerazioni involontariamente (o forse volontariamente) profetiche che risuonano lucidamente esatte nel futuro senza futuro che stiamo ora vivendo.

Un meccanismo in atto che, personalmente, non vedo chi (e come) lo possa fermare... augh

 

I poteri di Edoardo Cacciatore ► (Post su FB, 22 settembre) Recupero due testi, che mi risuonano al presente, dal libro Tutti i poteri (1969) di Edoardo Cacciatore. Per diversi suoi ammiratori (quorum ego, ma non per lui) il suo libro poetico migliore.

 

Presentimento secondo - IL GIUOCO SI SCATENA

 

I


Furia e fretta ha la guerra ma poi non è rapida

Quarti d’ora ha eterni e fa che si accomuni

Dente ad unghia mentre navi in convoglio incensa

Tanfate d’odio unendo a inodori digiuni

Fila sì la pace a piene mani dilapida.

Frane di bigio un polverone è l’epopea

Scorie celando e olande di monotonia

Dove latta di scatole squarciò l’immensa

Cavia all’inedia - la pace lei incombe e avvìa

Nuovi lutti all’evo ma quanti alibi crea.

Bunker non è il rifugio o belvedere a busti

Tra ippografi - in crocchi urbani anzi t’impicci

Con popolo che a spostare scandali pensa.

Scatenati si sono dai loro feticci

Scosso è il fuso orario e le lancette raggiusti.

 

Presentimento terzo - LA SORPRESA SENZA FINE

 

VIII


Tra schiavo e schiavo non sta più una luna sfatta

Veronica bifronte su bonacce infide

Batte a gong un’inflessione in estrema ratio

Contraffà osanna e belve frusta è che recide

Foschia in trecce e lo iato in realtà riscatta.

Milioni e milioni di semplici siamo

Taglio fu prima poi sutura del potere

Trapezio poi non antropocentrico spazio

Quante mattine sorsero e parvero sere?

Lumi ebbe il mondo e l’homuncio parve più gramo.

Persino il ferro spinato però non dura

Finirà la guerra è finita e grida Pace

Sequestro è sì la vita ma va giù lo strazio

Pregio sempre ha di meno e chi più si compiace

Di dire all’uomo Soffri mostro di natura.

 

La nuova barbarie del XXI secolo ► (Post su FB, 29 settembre) A chi continua ad asseverare che dirsi antisionisti equivale ad essere antisemiti, consiglio la lettura delle dichiarazioni di Gideon Levy, importante giornalista israeliano intervistato da Chiara Cruciati sul ‘manifesto’:

“Dall’inizio del sionismo gli israeliani non hanno mai visto i palestinesi come esseri umani uguali, ma come esseri da rimpiazzare. Nei primi anni Venti i pionieri parlavano apertamente di conquista del lavoro, ovvero di sottrarlo ai palestinesi. La disumanizzazione esiste da decenni. Il 7 ottobre ha solo reso tutto più intenso e Israele è uscito allo scoperto. La maggior parte della società pensa che Israele abbia il diritto di fare ciò che vuole e che non ci siano palestinesi innocenti. Sente di avere il diritto di compiere un genocidio e una pulizia etnica.

(...) C’è una opposizione dentro Israele, ma è legata agli ostaggi e alla sostituzione di Netanyahu, non al genocidio. Il paese è molto più unito di quanto appaia in superficie: quando si arriva alle questioni chiave, si vede quanto consenso oggi abbia l’ultradestra e quanto il 7 ottobre sia percepito come un’opportunità da sfruttare. Non significa che tutti gli israeliani siano dei pazzi fascisti, ma che la maggioranza prova un’indifferenza malata per quanto accade a Gaza.

(...) Israele va sempre più verso posizioni fondamentaliste e razziste... ciò che mi preoccupa di più è la maggioranza che si incammina verso il buio.

(...) L’occupazione cambia faccia di continuo e oggi vediamo la sua fase più barbara: ora è genocidio. In Cisgiordania diventa più terribile ogni giorno di più, i pogrom dei coloni sono quotidiani. Ogni occupazione diventa peggiore con il tempo. È un circolo: l’occupazione genera resistenza, la resistenza rende l'occupazione più crudele, la resistenza diventa più crudele.

(...) il piano è chiaro: spingere la popolazione in campi di concentramento a sud e poi ‘offrirgli’ la scelta, stare in gabbia o lasciare Gaza. È pulizia etnica. Allo stesso modo le uccisioni di massa, la sistematica distruzione, la cancellazione di interi quartieri servono a rendere quella terra invivibile. Il governo dimostra nelle azioni e nelle dichiarazioni che sta commettendo un genocidio pianificato”.

 

Levy ci dice che non tutti gli israeliani sono “dei pazzi fascisti”, epperò che la grande maggioranza dei suoi connazionali sia indifferente o dia il suo consenso al governo fascio-sionista e alle sue politiche di sterminio, chiama a una responsabilità storico-politica collettiva, non meno pesante di quella del popolo tedesco sotto il nazismo o del popolo italiano sotto il fascismo. Altro che antisemitismo.

È la nuova barbarie del XXI secolo che avanza... augh

 

Innegabile ► (Post su FB, 6 ottobre)  Non sarà ozioso osservare che la comunità di origine (fascista) a cui sempre si appella la premier Meloni con i suoi camerati, è sempre stata storicamente e fieramente antisemita, in obbedienza allo spirito delle leggi razziali emanate nel 1938 dal ‘kuce’ (Gadda dixit) Benito Mussolini. Ora i membri di codesta comunità, ritornata al potere, hanno fatto una capriola di 180 gradi, attaccando i buoi (cioè il popolo bue che la vota) dove il padrone Trump vuole e diventando degli ultrà filosionisti.

Ma un filo nero continua a sussistere: erano negazionisti prima davanti ai campi di sterminio nazisti, sono negazionisti oggi davanti al genocidio del popolo palestinese a Gaza.

L'unica cosa innegabile è che sono sempre dalla parte sbagliata della historia...

 

Paolo Bonacelli R.I.P. ► (Post su FB, 9 ottobre)  Se ne è andato a 88 anni Paolo Bonacelli, un attore di teatro (soprattutto), ma anche di cinema davvero grande, intelligente e colto come pochi. Paolo era anche una persona amica e lo voglio ricordare attraverso una recensione che pubblicai nel libro Prove Aperte - vol. II (2017):

 

Paolo Bonacelli / Victor. I bambini al potere – (2006)

 

I primattori in Italia sono quasi tutti seriosi, impettiti, non di rado boriosi e compresi di sé. Uno come Gassman, per esempio, anche quando negli ultimi anni tentava di auto-sputtanarsi, di auto-demolire il proprio mito, lo faceva con un eccesso di autorevolezza, con un accanimento animoso che finiva per corroborare il proprio ipertrofico narcisismo. Per questo vado ogni volta con grande piacere a vedere e rivedere uno come Paolo Bonacelli, un primattore che è, in fondo, sempre rimasto un outsider, un bravissimo battitore libero, sempre pronto a smarcarsi, a non farsi ingabbiare, un fuoriclasse nel senso di inclassificabile, capace di fare qualsiasi cosa dal leggero al drammatico al grottesco, sempre con un’aria ironica e sorniona, dove il cinismo romano sconfina quasi in un understatement anglosassone.

È pertanto una delizia godersi il 67enne Bonacelli calarsi, vestito da marinaretto, nei panni di Victor, l’impudente e irridente bambino-gigante di 9 anni, protagonista dell’omonima, celebre pièce di Roger Vitrac. Victor. I bambini al potere debuttò a Parigi nel 1928 con la regia, nientemeno che, di Antonin Artaud. Ed è ormai reputata un classico dell’avanguardia del primo ’900. Sappiamo, purtroppo, che nulla invecchia quanto l’avanguardia e il presente allestimento per l’adattamento e la regia di Mario Missiroli (al Teatro Parioli) lo conferma: Victor è, oggi, tutt’al più uno stagionato divertissement, assai depotenziato nella sua carica eversiva ed anarchica. Vitrac proveniva dal gruppo dei surrealisti (da cui però era stato cacciato dal capataz Breton), e in questo testo si era industriato a mettere insieme gli umori sfrenatamente parodistici di Alfred Jarry con le citazioni stravolte dell’Amleto, lo sberleffo alla commedia boulevardière stile Feydeau con la satira antimilitarista che 80 anni fa colpiva come una frustata l’orgoglio sciovinista della Francia, ancora ben memore della disfatta di Sedan (1870) che aveva segnato il tracollo del Secondo Impero.

Di tutto ciò, oggi, a noi importa quasi nulla, è soltanto materia prima che serve ad innescare la performance gigionesca e sulfurea di Bonacelli, che con faccia da ‘tolla’ e malizia da Pierino la Peste, come un elefante in una cristalleria fa irruzione nel salotto dove i suoi genitori ricevono altolocati ospiti, e con scientifica ‘crudeltà’ para-artaudiana si applica a smascherare via via tutto l’ingorgo di tradimenti, adulteri, corna e bi-corna, maleodorante retorica patriottarda, follia militarista, ipocrisia borghese che avvolge ed avvelena la vita degli adulti. A partire dal bellimbusto Charles, papà di Victor, stolido puttaniere che va a letto sia con la domestica Lili, sia con la sua amante Thérèse, moglie del generale Antoine, risibile marionetta del più vacuo e falso onore militare (ma senza un briciolo della geniale, efferata demenza di Ubu Roi). Il personaggio, tuttavia, più strampalato e fuori controllo è quello di M.me Ida Mortemart, amica della madre di Victor, Emilie: una sottospecie di femme fatale che si rivela invero una ‘fatale’ ed esilarante petomane, che con i suoi irresistibili scoppi di aerofagia scatologica distrugge l’ultima facciata di rispettabilità e buona educazione e apparenza del ricevimento nel salotto borghese. Un pezzo degno delle vignette di Georg Grosz con i signori e le signore della buona società ritratti come laidi maiali.

In tutto ciò sguazza avidamente Bonacelli, col suo corpaccione rigonfio, con la sua esibita pappagorgia, con i suoi shorts rigati a mezza coscia e il berretto blu da “vestivamo alla marinara”. Davvero un’icona smagliante di ragazzino-mostro che trascina felicemente con sé una spiritosa Valeria Ciangottini che incarna la bimbetta Esther, figlia di Thérèse e… di Charles, dunque sorellina naturale di Victor. Bonacelli si ritaglia da par suo anche la scena terminale che svisa tutta virgolettata sul patetico, col bambinone terribile che si intrufola nel talamo dei genitori che litigano furiosamente e in modi teatrali ed esagerati “muore di morte”, così, senza un preciso motivo. Subito dopo il padre ammazza la consorte e si suicida, mentre salta fuori la colf a siglare la farsa con la battuta antifrastica e anticlimax: «Ma allora è un dramma!». Postremo sberleffo invero telefonato. La vetero-avanguardia di Vitrac la possiamo dimenticare, il primattore Bonacelli lui no, non lo possiamo dimenticare. 

 

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