I mille colori di Rosa Pierno

 

 

di Marco Palladini

 

Poetessa e saggista di vaglia, nonché pittrice, Rosa Pierno ha da poco pubblicato un libro dal titolo stuzzicante: Paradossale Cromatico Trattato (Gattomerlino, 2025). Secondo afferma l’autrice il suo volume è, dunque, un trattato, definizione impegnativa, epperò è paradossale. Che vuol dire? Probabilmente che l’autrice non vuole montare in cattedra e fare come Goethe (La teoria dei colori, 1810) che si sentiva più scienziato di Isaac Newton e scrive un saggio per contraddire la teoria corpuscolare della luce del matematico, fisico, astronomo e filosofo inglese secondo cui la luce bianca deriverebbe dalla interferenza accelerata di tutti i colori, laddove lo scrittore tedesco in base alla sua esperienza sosteneva che erano, invece, i colori a scaturire dalla interazione tra la luce e il buio.

Dopo oltre due secoli Pierno sa che è, appunto, paradossale volere dissertare con sicumera, se non con albagìa sulla scala cromatica che abbiamo sotto gli occhi. Il suo è un approccio che chiamerei poetocritico che si avvale di una scrittura fluente, ammaliante, leggera nel senso che non è mai tediosa e che invita il lettore a fare un viaggio intelligente e, talora, anche ironico nelle mille e mille pieghe della colorimetria. Pierno, per intenderci, si tiene ben discosta pure dal 78enne storico francese Michel Pastoureau che ha elaborato molti libri di “storia di un colore”: nero, rosso, verde giallo, rosa, blu, bianco, indagati seguendo la linea di una disamina socio-culturale, simbologica, araldico-figurativa, anche linguistica dei colori, costruendo nel tempo un percorso dentro un labirinto cromatico che ci racconta molto della storia e della cultura dell’Occidente.

Se dovessi trovare proprio un riferimento, direi che il trattato di Pierno è un libro manganelliano, perché ha un tono insieme di libera divagazione e di oculata precisione, di quasi fiabesche digressioni e insieme di concrete puntualizzazioni per via di un ineccepibile know-how di prima mano; un tono, dunque, che molto mi ricorda i volumi più felici dell’autore di Altre concupiscenze e Discorso dell’ombra e dello stemma. Ecco il discorso poetocritico di Pierno parte da sé, dal proprio essere un’artista visiva che lavora abitualmente, costantemente con i colori, mescolandoli, variandoli secondo un gioco di policromie effettualmente illimitato. E gioca Pierno pure partendo dal proprio medesimo nome, Rosa, che designa un colore che è un po’ il filo ‘rosso’ o, meglio, connettivo dell’intero libro con tutte le sue innumeri varianti: rosa pesca, rosa corallo, rosa cipria, rosa ciliegia, rosa tea, rosa caramella, rosa carnicino, rosa fenicottero etc. etc. Ma poi rimarcando: «”vedere il mondo in rosa”, “all’acqua di rose” è accedere a una visione leggera e fatata, labile e inconsistente. Tuttavia, il rosa è un pigmento non fatuo, non vanesio e non superficiale». Sottolineatura assai materialistica per dirci che il colore è appunto un pigmento, ha una consistenza materiale, non è una astrazione visiva, pur prestandosi a deliziose diversioni poetiche come questa: «Blu oltremare, blu di Prussia, blu di Francia, blu di Persia. Il blu è un colore che ama viaggiare, proviene da luoghi esotici o immaginari. Si persuade di restare straniero persino in patria».

E qui mi risulta irresistibile il rinvio ad un libro eteroclito come Autobiografia del Blu di Prussia di Ennio Flaiano, in cui lo scrittore pescarese assevera sardonicamente: «Il Blu di Prussia odia i mistici e la xilografia (…) Il Blu di Prussia odia l’acquerello, le donne e posa a maleducato (…) il Blu di Prussia. Velenoso, sordido, intelligente e pieno di rancori sociali (…) I colori sono eguali per tutti. Soltanto io, Blu di Prussia, sono parziale, spesso per puro amor di polemica: e non perdono quei mediocri che mi amano. Ma soffro egualmente. Nel Blu di Prussia vedi la dissoluzione morale e intellettuale, non soltanto la dissoluzione organica, la quale è sufficientemente bene espressa, per esempio, dal verde e dal giallo». 

Nel teatro o teatrino multicromatico in cui agisce ed opera un pittore ci sono certamente i colori primari o principali quali il bianco, il nero, il rosso, il verde, il giallo e il blu, ma è anche vero, nota Pierno, che non ci sono i colori assoluti, laddove ogni cromatismo è veicolo di una pressoché infinita gamma di sfumature, e perché i colori scivolano o digradano o deragliano l’uno nell’altro scoprendo sempre nuove tinte.

È vero, però, che oltre dieci anni fa è stato brevettato un colore quasi assoluto: il Vantablack, un nero che assorbe fino al 99,965% delle radiazioni dello spettro visibile. Vanta è l’acronimo di “Vertically Alligned NanoTube Arrays”, ovvero schiere di nanotubi (di carbonio) allineati verticalmente. Peraltro, in questa corsa al nero assoluto nel 2019 nel famoso MIT (Massachusetts Institute of Technology) hanno scoperto il “Blackest black”, un materiale ultrablack dieci volte più scuro, se possibile, del Vantablack, di cui un famoso artista indo-britannico, Anish Kapoor, acquistò nel 2014 i diritti esclusivi di utilizzo in campo artistico, suscitando moltissime polemiche da parte di altri colleghi pittori e scultori.

Tornando al libro di Rosa Pierno mi sembra evidente che il cuore processuale della sua smagliante prosa critica stia in una accanita e mai interamente compiuta autoriflessione sul dipingere i colori e con i colori, ogni volta perdendosi e ritrovandosi nelle infinite nuances versicolori che appaiono sulle sue tele, ma anche nelle tele e nei quadri altrui. Non a caso il saggio è punteggiato dai nomi degli artisti che l’hanno stimolata o che lei ha preso a riferimento: Mondrian e Seurat, Cézanne e Matisse, Picasso e Dürer, Courbet e Piranesi, Bonnard e Rotko, Leonardo e Giovanni Bellini, Corot e Chardin. Un pantheon di creatori di forme e colori che delinea uno screziato, prezioso, voluttoso itinerario policromo che Pierno, in explicit, così sintetizza: «… La forma sembrerebbe un pretesto, ma è, in realtà, irrinunciabile. In seconda battuta si vede il pigmento, la pasta oleosa variamente diluita, la materia, la maniera con la quale è distribuita col pennello. Allora il mondo riappare senza che fosse mai scomparso». 

Dal mio canto rifletto che questo mondo a colori può, però, riapparire assai diverso se un soggetto è daltonico ovvero affetto da discromatopsia o acromatopsia, cioè vede, più o meno, soltanto bianco e nero, oppure ha una vista tetracromatica che ti permette, al contrario, di vedere circa dieci milioni di sfumature di colore diverse, laddove un soggetto normodotato ne può distinguere ‘appena’ un milione. Pure questo è il paradosso della tavolozza dei colori che è sempre la risultante dell’interazione tra la realtà noumenica e le capacità del nostro organo visivo. Mi soccorre allora ancora Flaiano: «Il Blu di Prussia studiò nelle scuole serali di quella triste e fumosa città dove, rimasto orfano, gli zii l’avevano mandato a guadagnarsi il pane in una fabbrica di illusioni».

Ecco è nella fabbrica di illusioni dell’orgia dei colori che Rosa Pierno trova infine la sua verità di artista e di poeta.

 

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