“Il loro
grido è la mia voce - Poesie da Gaza”: per non morire… trentadue testi di autori palestinesi
di
Antonino Contiliano
Il volume Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza (Fazi Editore, 2025),
curato da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, raccoglie
trentadue testi scritti dopo il 7 ottobre 2023 da dieci poeti palestinesi: Hend
Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul,
Yahya Ashour, Heba Abu Nada (uccisa nell’ottobre 2023), Haidar al-Ghazali e
Refaat Alareer (ucciso nel dicembre 2023). Il libro è accompagnato da una
prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé e da interventi di Susan
Abulhawa e Chris Hedges. Per ogni copia venduta, l’editore devolverà 5 euro a
EMERGENCY per le attività sanitarie a Gaza.
Fin dalle prime pagine
emerge la duplice immagine che sostiene l’intero volume. Da un lato, la
rappresentazione di una Palestina ridotta a territorio devastato: una terra
svuotata, museificata, deumanizzata. Le politiche e le operazioni militari
degli ultimi decenni – non solo quelle successive all’ottobre 2023 – hanno
progressivamente inciso una cartografia di distruzione materiale e simbolica
che la guerra di Benjamin Netanyahu sta spingendo al limite, mentre la
diplomazia occidentale osserva con distanza o complicità.
Dall’altro lato si
impone la forza della parola poetica. Le poesie di Gaza non sono semplici
testimonianze, ma atti di resistenza che rivendicano vita, dignità, memoria. Lo
sottolinea Pappé nella prefazione: scrivere poesia
durante un genocidio
conferma la funzione cruciale dell’immaginazione come strumento di
sopravvivenza e opposizione. Negli anni della guerra totale, ricorda Pappé, già
Mahmud Darwish aveva indicato nella poesia un gesto rivoluzionario capace di
preservare l’umanità là dove la violenza vorrebbe cancellarla.
Questa doppia tensione
– devastazione e resistenza – è leggibile nella varietà delle forme adottate:
poesie dirette o metaforiche, essenziali o tortuose, sempre però attraversate
da un grido per la vita e da una lucidissima consapevolezza della morte. Le
immagini richiamate dal traduttore Nabil Bey – le strade di Gaza, le foglie nel
vento, il pianto dei bambini, gli ulivi – restituiscono il carattere concreto e
sensoriale di questi versi. La scrittura diventa così un atto di amore verso
una terra che continua a immaginare la libertà. Come ricordava Edward Said, è l’ultima resistenza contro le pratiche disumane e le ingiustizie che
sfigurano la storia dell’umanità.
In questo quadro emerge
la figura di Refaat Alareer. Poetico e politico, docente e attivista, è stato
assassinato nel 2023. Lo scrittore e reporter Chris Hedges, in una lettera
indirizzata proprio a lui, osserva che sono gli assassini ad avere paura dei poeti:
della loro capacità di dire ciò che la violenza vorrebbe cancellare. È con
questa immagine – fragile e combattiva insieme – che la raccolta trova il suo
punto di massima intensità.
Per questo è
significativo che la recensione si chiuda con la poesia “Se devo morire” (p.
119), scritta da Alareer nel 2011 per la figlia Shymaa. Anche Shymaa è stata
uccisa nell’aprile 2024, insieme al marito e al loro figlio di due mesi. La
loro morte conferisce ai versi un peso ulteriore: non soltanto una
dichiarazione poetica, ma un testamento che continua a parlare per chi non può
più farlo.
Se devo morire
Se devo morire, tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
per vendere le mie cose,
per comprare un pezzo di stoffa
e qualche filo
(fallo bianco, con una lunga coda),
così che un bambino, da qualche parte a Gaza,
fissando il cielo negli occhi,
aspettando suo padre che è partito tra le
fiamme -
senza dire addio a nessuno,
neanche alla sua carne,
neanche a se stesso -
veda l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto
tu, volare alto
e pensi, per un momento, che lassù ci sia un
angelo
che riporta l’amore.
Se devo morire,
che porti speranza,
che sia una storia.
Giacomo Cuttone, Proiezione di mezzogiorno, 2025
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